“Gli Esg sono stati distorti da una visione woke del capitalismo che ha portato a strumentalizzare il concetto di sostenibilità”. La frase gli esce quasi di getto alla fine di un colloquio con il Foglio durante il quale Antonio D’Amato, presidente del gruppo Seda, leader mondiale del settore packaging per alimenti e già numero uno di Confindustria, spiega che l’Europa dovrebbe fare “un’inversione a U” sul modo in cui ha impostato la transizione energetica. Il suo è un ragionamento sulle prospettive del vecchio continente che, trovandosi al bivio tra leadership globale e declino, deve scegliere “strategie e percorsi” che lo rendano più competitivo su produzione, ricerca e innovazione. E il Green deal non è l’approccio giusto. “Il rischio – dice D’Amato – è che la connotazione ideologica che ha caratterizzato l’approccio alle politiche ambientali nella passata Commissione possa essere ancora presente in questa legislatura, nonostante il nuovo Parlamento si mostri consapevole della necessità di un deciso cambio d’indirizzo”. Le critiche di D’Amato al Green deal sono note (è arrivato a definirlo un “black deal” al festival dell’economia di Trento), ma oggi il suo timore è che i vice presidenti scelti da Ursula von der Leyen per la transizione energetica e per le strategie industriali, la spagnola Teresa Ribera e il francese Stéphane Séjourné, siano poco disponibili a correggere la rotta nonostante esistano “prove scientifiche” dei danni provocati all’ambiente dall’estremismo ecologico, oltre a quelli inferti all’economia e alla competitività costringendo tante imprese a delocalizzarsi fuori dall’Europa per sfuggire all’iper regolamentazione asfissiante. “Ovviamente, l’industria deve essere in prima fila nel continuare a migliorare la propria impronta carbonica e le industrie europee, in
particolare quelle italiane, hanno fatti progressi straordinari negli ultimi venti anni. Tant’è che le emissioni dell’Europa rappresentano solo il 7 per cento di quelle globali e continuano a essere in riduzione. E questo è stato reso possibile da continui investimenti in innovazione e ricerca in piena neutralità tecnologica. Un approccio costruttivo che è stato negato dall’ambizione politica dell’Europa degli ultimi anni, che ha rincorso obiettivi tutt’altro che sostenibili per l’ambiente, l’economia e la società, al fine di compiacere i mercati azionari”. Un aspetto, quello finanziario, di cui si parla poco ma che è anche un po’ il cuore del problema. L’indirizzo del Green deal europeo è stato pienamente recepito, se non anticipato, dai grandi fondi internazionali che hanno selezionato soprattutto le società quotate, ma non solo, attraverso l’adozione dei criteri “Esg” (Environmental, social, governance). Gli Esg hanno debuttato nel mondo della finanza almeno una decina di anni fa, più o meno in concomitanza con gli accordi di Parigi perla riduzione delle emissioni, ma è con il Green deal che sono diventati determinanti per le sorti di interi settori, in particolare quello energetico. “Negli ultimi cinque anni – prosegue D’Amato – l’ideologia della transizione energetica ha perseguito il mito della decrescita felice, minando la competitività del sistema economico e industriale europeo e mettendo a serio rischio sia la tenuta sociale sia la stessa sostenibilità ambientale”. In pratica, la sostenibilità si è rivelata “insostenibile” per l’economia? “Esatto, perché sono state portate avanti massicce iniziative legislative che, in assenza di ogni neutralità tecnologica e soprattutto prive di ogni validazione scientifica del loro impatto ambientale, hanno fortemente compromesso intere filiere industriali, da quelle di base all’automotive, dall’agroalimentare al packaging e al farmaceutico, dalla chimica al tessile, senza dimenticare la tassonomia e l’energia”.
Per D’Amato occorre far leva su industrie di qualità, sostenibili e innovative, come ha messo in evidenza Mario Draghi nel suo rapporto sottolineando come negli ultimi anni le altre grandi potenze economiche del pianeta abbiano portato avanti politiche industriali spesso con l’obiettivo di renderci strutturalmente dipendenti da loro. “Tutto ciò indebolisce il nostro tessuto economico e sociale e, in particolare, indebolisce i ceti medi. E la storia ci insegna che quando il ceto medio viene a soffrire o viene compresso, e purtroppo questo è quanto sta accadendo in tutte le democrazie occidentali negli ultimi anni, nascono poi intolleranze, razzismi, sentimenti che dobbiamo saper combattere, saper contrastare”. Le strade da percorrere? Per D’Amato sono tre: “Un cambio di passo nelle politiche dell’Unione europea per rilanciare crescita economica e reale sostenibilità ambientale; la scelta del nucleare come non più rinviabile e, infine, l’esportazione di know how, tecnologie ed economia circolare in paesi in via di sviluppo, a partire dal continente africano, di cui altri paesi stanno approfittando con logica colonizzatrice”. La salvezza dell’Europa passa anche da queste scelte.