RIDUZIONE DEL COSTO DEL LAVORO – FISCALIZZAZIONE DEGLI ONERI SOCIALI COME ELEMENTO FONDAMENTALE PER IL MANTENIMENTO E L’ATTRAZIONE DEGLI INVESTIMENTI PRODUTTIVI
OBIETTIVO: RENDERE STRUTTURALE PER LA DURATA DI 10 ANNI LA DEFISCALIZZAZIONE DEGLI ONERI SOCIALI PER IL MEZZOGIORNO ED ELIMINARE IL CAP ATTUALMENTE ESISTENTE AI SENSI DEL TEMPORARY FRAMEWORK
L’attuale misura prevista dalla legge di bilancio 2021, con scadenza nel giugno 2022, che prevede una fiscalizzazione del 30% degli oneri sociali, oggi con una base giuridica derivante dal temporary framework, e con un cap di 2,3 mln di euro, deve essere:
- prorogata e resa strutturale con una durata di 10 anni per ridurre il differenziale del costo del lavoro rispetto alle altre aree europee più competitive;
- resa priva di massimale per non penalizzare gli insediamenti di maggiori dimensioni, che possono contribuire in maniera più significativa alla creazione di centri decisionali e di ricerca, favorendo così anche la creazione di occupazione intellettuale e altamente qualificata.
La riduzione della fiscalità sul costo del lavoro dovrà essere inizialmente introdotta nelle aree del Paese in cui il tasso di occupazione è paragonabile a quello del Mezzogiorno per essere poi estesa all’intero territorio nazionale, nel medio periodo e quando la finanza pubblica lo consentirà, grazie anche al recupero di deficit ottenuto nel Mezzogiorno.
IL RILANCIO DELLO SVILUPPO E DELL’OCCUPAZIONE NEL MEZZOGIORNO
La fiscalizzazione degli oneri sociali è una misura indispensabile per aumentare la competitività del costo del lavoro e rendere possibile una politica di attrazione degli investimenti nazionali e, soprattutto, internazionali, con l’obiettivo di localizzare nel Mezzogiorno imprese e attività industriali che possano occupare non solo forza lavoro ma soprattutto favorire la creazione di centri decisionali e occupazione altamente qualificata.
PRIORITÀ DEL MEZZOGIORNO PER L’ITALIA E PER L’EUROPA
Il rapporto debito pubblico/PIL che in questi due anni di pandemia e di guerra è nettamente peggiorato può essere riequilibrato solo se l’Italia raggiunge almeno il 70% di tasso di occupazione della popolazione attiva.
Ridare priorità al Mezzogiorno come area nella quale concentrare investimenti pubblici e privati è dunque fondamentale.
Il rilancio dello sviluppo e dell’occupazione nel Sud, in particolare, è indispensabile per rendere stabile la crescita e possibile, in prospettiva, il riequilibrio tra debito pubblico e prodotto interno lordo italiano. A maggior ragione nel momento in cui il Bilancio UE sarà necessariamente appesantito da maggiori oneri per la difesa e per il contrasto al cyber terrorismo cui l’Italia non potrà sottrarsi.
La tenuta finanziaria dell’Italia è il sentiero stretto, lungo il quale passa la tenuta della stessa Europa e dell’euro. Essa, tuttavia, è a sua volta impensabile senza che il Mezzogiorno recuperi i divari in termini di prodotto interno lordo e di occupazione rispetto al resto del Paese.
La convergenza del Mezzogiorno è quindi indispensabile alla tenuta finanziaria della stessa UE. Tale obiettivo deve essere considerato strategico e nazionale e non una mera rivendicazione di una parte del Paese.
Solo portando il tasso di occupazione della popolazione attiva del nostro Paese ad almeno il 70% – obiettivo peraltro già fissato a Lisbona venti anni fa – è possibile che si generi il PIL sufficiente ad assicurare un equilibrio più sostenibile delle finanze del Paese.
I tassi di occupazione in Italia (ISTAT 2019) vedono le regioni meridionali fortemente distanziate da quelle settentrionali e centrali (rispettivamente: 44,8%, 67,9% e 63,7%), con una media nazionale pari al 59%. Si tratta di un valore superiore solo a quello della Grecia (56,3%), e distante più di 10 punti dalla media europea (72,4%) e di 15 punti dal tasso della Germania (76,7%) (EUROSTAT 2019).
È significativo il fatto che un paese come la Polonia, che gode dei vantaggi offerti dalla UE e di un costo del lavoro pari ad 1/3 di quello del Mezzogiorno, abbia addirittura aumentato il tasso di occupazione nell’anno della pandemia (73,6% rispetto al 72,8% dell’anno precedente) e che la Repubblica Ceca, in analoga situazione, abbia un tasso del 75,7%.
È di tutta evidenza che il tasso di occupazione della popolazione attiva nazionale non potrà crescere se non si eleva il corrispondente tasso di occupazione della popolazione attiva del Mezzogiorno ad almeno il 60%.
Ciò significa che l’obiettivo minimo che bisogna porsi è di far crescere il tasso di occupazione della popolazione attiva al Sud di almeno 15 punti in dieci anni.
Obiettivo tutt’altro che utopistico da conseguire, se solo si considera che i margini di ulteriore espansione della crescita al Nord sono limitati sul piano strutturale per ragioni di congestione e densità insediative, oltre che per carenza di forza lavoro, laddove il Mezzogiorno ne è ricco, ponendosi quindi come l’area a maggiore potenziale di crescita.
Una crescita sostenuta dell’occupazione nel Mezzogiorno è il presupposto sul quale si fonda, assieme ad un significativo aumento del PIL nazionale e al correlato contenimento del debito pubblico, un rilancio complessivo dei fattori che determinano, al contempo, la capacità competitiva del Paese e la sua forza di attrazione di consistenti flussi di investimenti internazionali.
Tale crescita, per essere virtuosa, deve essere qualitativa oltre che quantitativa: occorre, in altri termini, recuperare la quota del valore aggiunto manifatturiero degli anni passati e puntare al re-insediamento, con stabilimenti di produzione, dei centri decisionali e di ricerca, unica via per contrastare con efficacia la grande disoccupazione intellettuale dei nostri giovani migliori.
Non è possibile affidare solamente allo sviluppo dell’industria turistica la missione di riequilibrare i divari di crescita e di Pil pro capite. La valorizzazione del nostro patrimonio ambientale e culturale è una grandissima opportunità per potenziare uno sviluppo del turismo a maggior valore aggiunto. Certo non basta a raggiungere gli obiettivi di crescita indispensabili.
I dati più recenti sugli investimenti diretti esteri (IDE) sono quanto mai eloquenti: la quota italiana si attesta sul 2% (per il 58% concentrata nel Nord Ovest e soprattutto in acquisti di marchi con chiusure di fabbriche), a fronte di valori pari al 18% in Francia e al 17% in Inghilterra e Germania (EY Attractiveness Survey, 2021).
In particolare, nell’ultimo decennio, hanno dimostrato grande attrattività paesi dell’EST come la Polonia, la Repubblica Ceca e l’Ungheria, che rientrano nelle aree dell’Obiettivo 1, ma che possono offrire costi del lavoro e carichi fiscali molto inferiori rispetto al Mezzogiorno.
Le criticità lamentate dagli investitori sono date da:
- carenze di competitività del sistema (mercato del lavoro, burocrazia, giustizia, e fisco)
- carenze di competitività del territorio (costo del lavoro, insufficienti politiche di attrazione degli investimenti)
Sulle carenze di competitività del sistema occorre realizzare politiche generali e riforme strutturali che sono al momento oggetto dell’impegno del Governo e non sono trattate in questo documento.
Non ci proponiamo qui l’obiettivo di esaurire il quadro degli interventi necessari per il pieno recupero dei divari e dei ritardi accumulati dall’Italia e, in particolare, dal Mezzogiorno.
Lo scopo di questo paper è soprattutto quello di evidenziare la necessità di rilanciare un forte sviluppo industriale e manifatturiero del Sud e del Paese cogliendo l’opportunità della ridefinizione e della semplificazione delle politiche di incentivazione.
Le carenze di competitività del territorio hanno fatto sì che gli investimenti esteri si siano indirizzati verso altri sistemi economici, dotati di pacchetti di agevolazioni particolarmente favorevoli, di adeguate politiche di promozione, di una ridotta incidenza del costo del lavoro e del carico fiscale.
RAFFORZARE LA STRUTTURA PRODUTTIVA DEL MEZZOGIORNO
Da quanto detto e nel contesto generale descritto, discende che dovranno essere create forti condizioni di vantaggio per gli investimenti produttivi, da orientare sia al mantenimento e al consolidamento dell’apparato di produzione meridionale, sia all’allargamento della base produttiva.
Va infatti sottolineato che occorre rafforzare il peso e la presenza della produzione industriale e il suo contributo al PIL nazionale per avere sviluppo duraturo e funzionale anche all’arricchimento scientifico e tecnologico del Paese. Non c’è sviluppo senza ricerca e non c’è ricerca senza industria che la promuova e la utilizzi.
Le finalità sono quelle di far rimanere e far sviluppare le imprese già attive sul territorio; far tornare le imprese che hanno promosso processi di delocalizzazione; attrarre investimenti esteri di qualità, che non siano solo produttivi, ma dotati anche di centri decisionali e di ricerca. Andranno, in altri termini, favoriti:
1) i progetti d’investimento delle imprese già localizzate, per mantenere ed implementare le loro produzioni ed evitare delocalizzazioni in aree più vantaggiose;
2) il reshoring di imprese che hanno intrapreso negli ultimi anni processi di delocalizzazione all’estero;
3) l’attrazione di investimenti esteri, possibilmente non solo produttivi, ma dotati anche di centri decisionali e di ricerca.
La riduzione del costo del lavoro attraverso la fiscalizzazione degli oneri sociali è quindi condizione necessaria, seppur non sufficiente, per invertire il trend di delocalizzazione che ha caratterizzato l’economia del Mezzogiorno negli ultimi anni e per favorire l’attrazione di investimenti nazionali e internazionali.
FONDAZIONE MEZZOGIORNO
Maggio 2022