Presidente D’Amato, quale è la sua prima valutazione a caldo del voto europeo?
«Il risultato delle urne è una chiara bocciatura dell’eccesso di autoreferenzialità, ideologia e burocrazia che ha caratterizzato negli ultimi anni la vita delle istituzioni europee e in particolare dell’ultima legislatura appena conclusa dove di fatto, con il green deal, si posto in essere un processo di forte deindustrializzazione che ha ridotto non solo le capacità competitive ma la stessa tenuta sociale dell’Europa. L’esito delle elezioni è il rigetto di una visione, di un modo di essere dell’Europa che ha finito per negare le sue stesse ragioni fondanti. L’errore di questa Europa è stato quello di dimenticare che si può essere un sistema forte solo se si è competitivi: ci si è illusi, affascinati dal mito della decrescita felice, di poter mantenere uno standard di benessere, di qualità della vita e di welfare rinunciando all’industria e delocalizzando le produzioni nei Paesi in via di sviluppo. Un errore di assoluta arroganza che ha creato le basi della rottura prima politica e poi sociale dell’Europa».
Si legge in tal senso anche la netta affermazione dei partiti sovranisti?
«L’Europa è nata subito dopo la Seconda guerra mondale con una visione politica e ideale molto
forte: costruire un sistema che potesse garantire pace, benessere e prosperità, evitando il ricorso ai conflitti che hanno sempre segnato la storia del nostro Continente. Una visione alta e nobile che è stata contraddetta negli ultimi decenni e, come ho detto, soprattutto nell’ultima legislatura, da una burocrazia che ha messo fuori la politica dall’Europa e da un’autoreferenzialità che ha favorito il sopravvento delle ideologie sugli ideali. La storia ci ha insegnato molto chiaramente che, quando iniziano a sfaldarsi le ragioni della coesione sociale, quando iniziano a soffrire i ceti medie le classi lavoratrici, quello è il momento in cui spuntano i nazionalismi, i populismi e i sovranismi. Per questo oggi la vera minaccia con cui dobbiamo fare i conti è la crisi di competitività dell’Europa, il suo basso tasso di crescita e di sviluppo che mette a rischio la stessa coesione sociale».
Anche il forte astensionismo ha radici in questo scenario?
«Il basso tasso di partecipazione al voto in Europa è conseguenza dell’incapacità della politica di intercettare i bisogni dei cittadini e di confrontarsi sui grandi ideali che hanno portato alla nascita della Comunità europea. Si tratta di invertire subito la marcia e il successo del Partito Popolare, che ancora una volta risulta la forza politica più importante del Parlamento Europeo, così come il successo dei partiti Conservatori dimostra che affermare in modo chiaro valori, ideali e un progetto politico forte sul ruolo e sul futuro dell’Europa, risponde a un reale bisogno dei cittadini. Di converso, la crisi che stanno vivendo oggi Francia, Germania e Belgio e le rispettive coalizioni politiche dei governi di quei Paesi, conferma che l’eccesso di ideologia, di retorica e di autoreferenzialità ha portato l’Unione Europea alla continua e progressiva marginalizzazione sia sul piano politico sia su quello economico».
Che ruolo può svolgere l’Italia in questo nuovo, auspicabile scenario europeo?
«L’Italia è un grande Paese fondatore dell’Europa, può e deve contribuire in modo significativo a rilanciare le ragioni vere di un’Europa più forte sul piano politico, più competitiva sul piano economico e più efficace ed efficiente dal punto di vista istituzionale. Quando l’Italia svolge fino in fondo il suo ruolo, senza complessi d’inferiorità e senza giocare di rimessa, i risultati arrivano. Oggi l’Italia svolge un ruolo più autorevole ed incisivo, consapevole del suo patrimonio di storia, di cultura, di idee e di industrie, dimostrando di poter essere decisiva per un’Europa costruttrice di pace e di benessere, non solo per i suoi cittadini ma per tutto il mondo».
Da dove deve ripartire l’agenda europea? Dalla Difesa comune?
«La guerra russo-ucraina e i conflitti nel Mediterraneo e nel Medio Oriente mostrano che la pace, che abbiamo dato per scontata per oltre ottant’anni, è nuovamente, per l’Europa, una emergenza assoluta. Ma per contribuire a costruirla occorre una strategia e un ruolo politico più forte. La difesa Comune europea, di cui tanto si parla, richiede innanzitutto una condivisa e unitaria politica estera comunitaria. Per questo bisogna ritrovare le radici dell’identità europea, costruire un idem sentire indispensabile per realizzare una strategia di diplomazia e difesa. Al tempo stesso occorre anche generare risorse adeguate per aumentare gli investimenti, potenziare ricerca e sviluppo ad alto livello, senza le quali una difesa comune rischia di essere velleitaria. È per questo che occorre ridare una forte strategia industriale all’Europa, perché senza industria non ci può essere né crescita economica, né ricerca e innovazione, né coesione sociale».
Il Mezzogiorno centrale nell’area euromediterranea è la svolta di cui l’Europa deve prendere finalmente atto?
«Il Mediterraneo era ed è sempre di più di una straordinaria importanza politica, economica e strategica per le sue risorse energetiche, per la sua centralità geografica e logistica, per l’enorme rilevanza demografica e per il suo fortissimo potenziale di crescita. L’Italia ha un fondamentale e insostituibile ruolo da svolgere nell’articolare e coordinare l’azione degli altri Paesi europei del Mediterraneo, bilanciando così quell’asse franco-tedesco che ha di fatto condizionato gran parte della politica europea in tutto il corso della storia comunitaria. In questo modo potremmo promuovere uno sviluppo sostenibile nei Paesi del continente Africano, contribuire a contenere le pressioni migratorie e diffondere benessere e pace in Paesi che ancora oggi soffrono di ritardi di sviluppo e di equità sociale».
Il Mezzogiorno d’Italia, in questo contesto, che ruolo pub svolgere?
«Per cultura, storia, tradizione e collocazione geografica il nostro Sud ha potenzialità incredibili e può essere il vero vantaggio competitivo per un ruolo da protagonista dell’Italia nel Mediterraneo. Ma perché questo accada, dobbiamo risolvere le nostre contraddizioni interne. Il divario di sviluppo e di occupazione tra Mezzogiorno e il resto dell’Italia e dell’Europa non è più sostenibile né dal punto di vista sociale né per la stessa tenuta finanziaria del Paese. Per riequilibrare il rapporto debito pubblico/Pii dobbiamo portare il tasso di occupazione ad almeno il 70%. Abbiamo appena toccato il 62%, che è un risultato molto buono rispetto ai nostri dati storici ma di circa dieci punti inferiore agli altri Paesi della Comunità europea eccezion fatta perla Grecia. Questo perché ad un tasso di occupazione al Nord di circa il 75% corrisponde un tasso di occupazione del Mezzogiorno di circa il 42%. È imperativo portare l’attuale tasso di occupazione del Sud al 60% nei prossimi cinque anni. E, per far questo è indispensabile rendere il Mezzogiorno il vero motore dello sviluppo economico del Paese. È una grande sfida ma cela possiamo fare. Anzi, dobbiamo farcela».