L’intervista ad Antonio D’Amato pubblicata su La Verità il 20 aprile 2024
Green Deal e deindustrializzazione, deriva ideologica ambientalista e vantaggi per la Cina, presenza invasiva delle lobby ambientaliste nei centri decisionali di Bruxelles a danno della competitività della Ue. È questa l’eredità della legislazione europea che si sta concludendo e sulla quale l’imprenditore Antonio D’Amato, presidente di Seda International Packaging Group, leader internazionale nella produzione di imballaggi alimentari, presidente della Fondazione Mezzogiorno e past president di Confindustria, offre un’analisi lucida e tranchant.
Come va ripensata la politica Ue?
«Negli ultimi 15 anni, ma in particolare nel corso della legislatura che si sta adesso chiudendo, si è andato sempre più rafforzando un vero e proprio processo di deindustrializzazione dell’Europa. Negli ultimi cinque anni l’ideologia del Green deal ha fortemente accentuato questa deriva, perseguendo il mito della cosiddetta decrescita felice, minando la competitività del sistema economico e industriale europeo e mettendo a serio rischio sia la tenuta sociale sia la stessa sostenibilità ambientale. Sono state portate avanti un vera e propria messe di iniziative legislative che, in assenza di ogni neutralità tecnologica e soprattutto prive di ogni validazione scientifica del loro impatto ambientale, hanno fortemente compromesso intere filiere industriali, da quelle di base all’automotive, dall’agrolimentare al packaging e al farmaceutico, dalla chimica al tessile, senza dimenticare la tassonomia e l’energia. La quantità di iper-regolazione e la contraddittorietà ed erraticità delle legislazioni europee hanno creato un clima di incertezza che ha sempre più paralizzato, se non addirittura disincentivato, gli investimenti produttivi».
Intanto i competitori internazionali vanno avanti senza tanti divieti ambientalisti, dando del filo da torcere all’industria europea.
«È così. Le altre grandi potenze economiche del pianeta hanno portato avanti una forte politica di rafforzamento del loro tessuto industriale e della loro competitività. In particolare, oggi, assistiamo ad una guerra economica, a cui noi europei siamo esposti in maniera significativa e rispetto alla quale dobbiamo saperci immediatamente attrezzare, recuperando una nuova strategia di sviluppo industriale e competitivo. Naturalmente, facendo leva su industrie di qualità, sostenibili e innovative, come sappiamo di poter fare».
Il periodo in cui Greenpeace suggeriva a Timmermans le norme green, sarà davvero archiviato con la nuova maggioranza post elezioni?
«Oggi sicuramente c’è più consapevolezza nei vari Stati membri e nelle istituzioni europee della necessità di un approccio più responsabile nei riguardi della competitività e della difesa della tenuta economica e sociale dell’Europa. Il vento politico nei diversi Paesi europei è cambiato e l’onda della demagogia e dell’estremismo ambientale si infrange contro l’evidenza dei danni prodotti, innanzitutto all’ambiente e all’autonomia strategica dell’Europa. Come dimostrano, ad esempio, gli interventi legislativi fatti sull’automotive, sull’energia e sulla tassonomia. Come dimenticare che solo quattro anni fa Greta Thunberg e i suoi seguaci si incatenavano davanti alle centrali nucleari chiedendone la chiusura e solo pochi mesi fa facevano altrettanto di fronte alle centrali a carbone reclamando la riapertura delle centrali nucleari?».
II conflitto in Ucraina e in Medio Oriente impongono un cambio di marcia della strategia europea?
«Il dramma della guerra, la precarietà dell’equilibrio geopolitico del Pianeta, sono tutti elementi che rendono assolutamente indispensabile un rafforzamento dell’Europa. E su questo mi sembra ci sia una crescente convergenza. Resta, però, da affrontare per intero la gran quantità di scorie legislative e ideologiche accumulate in questi anni. C’è anche da far luce sull’ingerenza impropria di quelle organizzazioni non governative che, in maniera non trasparente e fortemente ideologizzata, hanno condizionato i processi legislativi creando le distorsioni a cui abbiamo assistito in particolare, in quest’ultima legislatura».
Il Parlamento Ue ha approvato il regolamento sugli imballaggi che, nonostante alcuni miglioramenti rispetto al testo iniziale, è comunque restrittivo per l’industria soprattutto italiana. Si Poteva fare meglio?
«È stato evitato un rischio gravissimo. La disciplina varata ha impedito che si facesse un’inversione di marcia a 180 gradi rispetto a 30 anni di direttive comunitarie che hanno realizzato il più avanzato sistema di economia circolare del Pianeta. Un sistema che ha consentito alI’Europa di coniugare crescita e sostenibilità ambientale. È una grande vittoria dell’Italia che ha con determinazione difeso l’economia circolare di cui il nostro Paese ha il primato in assoluto, contrastando derive ideologiche prive di ogni fondamento scientifico».
L’Europa dei veti ambientalisti ha fatto un regalo alla Cina. Siamo in tempo per riparare ai danni?
«Ne abbiamo fatti anche fin troppi, non so quanti per ingenuità e quanti, invece, per interesse».
La neutralità tecnologica è la chiave per una rivoluzione verde intelligente?
«Nessuno di noi può sottrarsi alla necessità di rendere ogni giorno sempre più sostenibile il modo di fare impresa. L’industria europea, e in particolare quella italiana, ha nel corso degli ultimi decenni fatto progressi straordinari. In moltissimi settori tecnologici noi italiani siamo fra i migliori al mondo non solo per innovazione ma anche per sostenibilità. L’innovazione, la ricerca scientifica, la tecnologia sono la chiave per rendere sempre più possibile lo sviluppo di un’industria e di un’economia sostenibile dal punto di vista ambientale ma anche competitiva e capace di creare occupazione e benessere. La neutralità tecnologica è condizione indispensabile per evitare che si pongano limiti all’innovazione e al progresso scientifico. E al tempo stesso anche garanzia che si possa sempre perseguire una nuova via, la migliore possibile, per il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità senza apoditticamente precludere nuove soluzioni, tagliando così le gambe all’innovazione continua».
Lei è presidente della Fondazione Mezzogiorno. Con le tappe stringenti della transizione ecologica, il Sud rischia la marginalità?
«Dal punto di vista del sistema industriale italiano, per molti versi siamo all’avanguardia sul piano della sostenibilità e della capacità di innovare. Molto è stato fatto e continueremo a fare. Il Mezzogiorno deve diventare il vero motore di sviluppo e di crescita del Paese per poter rendere sostenibile il rapporto debito pubblico-Pil, indispensabile per tenere l’Italia in Europa soprattutto alla luce del rinnovato Patto di stabilità. Oggi l’Italia è l’unico Paese europeo che ha un tasso di occupazione del 61%. Stiamo celebrando la recente crescita dell’occupazione come un risultato positivo, e sicuramente lo è. Ma dimentichiamo che il Trattato di Lisbona del 2000 già individuava
nel 70% del tasso di occupazione della popolazione attiva il target da raggiungere entro il 2010. Tutti gli altri Paesi europei, ad eccezione del nostro e della Grecia, sono ben oltre il 70%. Il nostro 61% si compone di un oltre 74% del Nord e solo del 41-42% nel Sud. È di tutta evidenza che solo portando il Mezzogiorno al 6o% possiamo far crescere la media nazionale ad oltre i170%».
E un risultato possibile?
«Lo è a condizione che si faccia della crescita dell’occupazione un obiettivo strategico irrinunciabile e si valorizzino le intelligenze e la disponibilità di lavoro nel Sud come una leva competitiva per attrarre investimenti a livello nazionale e internazionale. Anche qui, naturalmente, investimenti in intelligenza di imprese di qualità e realmente sostenibili».
L’auto elettrica non conquista i consumatori, è ora di rivedere le scadenze di addio alle vetture a benzina?
«Andrebbe rivisto l’intero impianto che ha portato ad una scelta priva di neutralità tecnologica come quella dell’auto elettrica riaprendo opzioni tecnologiche diverse che potrebbero sicuramente ridare slancio ad un settore nel quale l’Europa ha avuto per decenni un assoluto primato tecnologico che nel corso degli ultimi anni abbiamo seriamente compromesso a favore, soprattutto, dell’industria cinese».
Confindustria andrebbe ridisegnata per acquisire maggior ruolo? Negli anni della sua presidenza, aveva un peso politico che poi ha perso.
«La Confindustria è la più grande organizzazione di rappresentanza imprenditoriale d’Europa ed ha per questo una grande responsabilità e un grande ruolo da svolgere, in Italia e a livello internazionale. La consapevolezza di dover recuperare competitività, centralità alla manifattura e ridare all’Europa una strategia di politica industriale è condivisa da tutti gli industriali italiani. In questi giorni Confindustria ha designato un nuovo presidente e una nuova squadra che sono certo potranno interpretare e rappresentare al meglio, in Italia e in Europa, questi valori sostenendoli con progettualità e capacità di proposta per scrivere una nuova pagina del futuro dell’Europa».