Il documento presentato il 25 marzo 2024 dalla Fondazione Mezzogiorno, aggiorna e integra le osservazioni già presentate nell’aprile del 2023 alla luce degli sviluppi dell’iter normativo del ddl, evidenziando i punti critici, indicando possibili soluzioni e cercando di focalizzare l’attenzione sui punti della riforma che investono il sistema produttivo.
Napoli, 25 marzo 2024
Premessa
L’Italia è in bilico. Il percorso legislativo verso il regionalismo differenziato si è andato riscattando faticosamente grazie a un’azione di informazione e contrasto partita nel 2018 dai ceti più avvertiti e da enti come la Fondazione Mezzogiorno, azione che in Veneto è stata definita dal costituzionalista Mario Bertolissi, consulente della Regione e componente della Commissione trattante per l’autonomia differenziata, di «rara efficacia». Un’azione che ha trovato nel tempo il supporto di analisti di tutto il Paese e di istituzioni di alto profilo tecnico tra le quali Banca d’Italia, Ufficio parlamentare di Bilancio, Corte dei Conti, nonché da forze di rappresentanza sociali come la Confindustria e da autorità morali quale la Cei che sta predisponendo un documento dei vescovi, dal Nord al Sud, che sarà presentato entro maggio 2024.
Si è così posto un freno al tentativo, messo in atto dai promotori dell’autonomia differenziata, di sviamento dalla ratio dell’articolo 116, comma 3, della Costituzione. Piuttosto che una razionalizzazione delle competenze secondo sussidiarietà, si è in presenza di una devoluzione indiscriminata delle materie (che non sono trasferibili senza revisione costituzionale) al fine di conseguire iltrattenimento nei singoli territori regionali del “residuo fiscale”, in contrasto non solo con l’articolo 119 della Carta, recante un principio di perequazione territoriale totale, ma anche con i princìpi che informano i sistemi tributari moderni, come enunciati anche dall’articolo 53, che sono redistributivi.
Il percorso di riallineamento alla Costituzione è, ancora, incompiuto. Restano punti critici nel disegno di legge Calderoli, a partire dal richiamo nelle disposizioni transitorie agli «atti di iniziativa delle Regioni di cui sia stato avviato il confronto tra il Governo e la Regione interessata. Ma resta soprattutto l’irrazionalità di fondo di una riforma che va in direzione di una ulteriore frammentazione dell’articolazione statale, senza una riflessione franca su cosa il regionalismo abbia rappresentato nel corso di oltre mezzo secolo.
La Fondazione Mezzogiorno è già intervenuta con spirito propositivo con il report del 4 aprile 2023 «L’Italia al bivio tra riforma dello Stato e autonomia differenziata», per evidenziare il rischio che intervenire sul regionalismo, addirittura differenziato, senza prima affrontare la riforma dello Stato, accelerasse l’entropia del sistema.
Nel documento che segue, che aggiorna quello presentato il 4 aprile dalla Fondazione Mezzogiorno, si evidenziano alcune questioni su aspetti giuridici, fiscali, economici, sociali del percorso di regionalismo differenziato e di federalismo fiscale.
1. Il disegno di legge in discussione alla Camera
Il ddl 1665 all’esame della Commissione Affari costituzionali della Camera presenta ancora problemi quanto alla collocazione nel sistema delle fonti e al rapporto con la produzione successiva in attuazione dell’articolo 116, comma 3 della Costituzione. È stato, infatti, eluso e resta largamente irrisolto il problema della capacità conformativa della legge in approvazione verso le leggi di devoluzione delle funzioni alle Regioni richiedenti, secondo il procedimento stabilito dal richiamato terzo comma del 116, atipico rinforzato per la riserva dell’iniziativa alla “Regione interessata”, per il necessario parere degli enti locali e per la necessaria previa intesa con la medesima Regione. Invero, il ddl 615, approvato dal Senato, continua a prefigurare una legge ordinaria cui è affidato definire «i princìpi generali per l’attribuzione alle Regioni a statuto ordinario di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia»: legge ordinaria, dunque, che non riceve particolare status da alcuna disposizione costituzionale nel rapporto con fonti successive del medesimo rango, ed è perciò suscettibile di essere innovata o derogata con ciascuna legge di devoluzione approvativa delle intese, della quale non può costituire parametro né quanto ai contenuti né quanto al procedimento formativo (per la parte non definita con l’articolo 116, comma 3 della Costituzione).
In termini concreti: tutti i limiti, di contenuto e procedimentali, faticosamente introdotti in questa legge – che chiameremo convenzionalmente “di principio”, in ragione del contenuto dichiarato e per comodità di designazione, ma che non presenta alcuna peculiarità rispetto a qualsiasi altra legge ordinaria – potrebbero essere considerati lettera morta dalle singole leggi di devoluzione.
I tentativi di configurarla dogmaticamente come fonte rinforzata, in carenza di un fondamento costituzionale della sua presunta atipicità, si possono ritenere non coronati da esiti convincenti. Si è anche detto che essa mirerebbe a una sorta di predeterminazione dei criteri di valutazione che il Parlamento seguirà nell’esame delle singole leggi rinforzate di devoluzione differenziata: ma anche così siamo nell’indistinto e nel generico richiamo a possibili buone pratiche di legislazione. Sicché, infine, si può dire abbia avuto prevalenza la fiducia nel vincolo “politico” derivante dalle previsioni della cosiddetta legge “di principio”: vincolo di cui il Governo dovrebbe tenere conto nello svolgimento dei negoziati con le singole Regioni in vista delle rispettive leggi di devoluzione.
Un auspicio, non una soluzione.
Soluzione che sarebbe venuta, invece, dall’inserimento dell’intero processo devolutivo nello schema della delegazione legislativa, in grado di irrigidire il parametro vincolante le leggi di devoluzione nei modi dell’interposizione normativa ex articolo 76 della Costituzione, così risolvendo il problema della riduzione delle Camere alla funzione meramente ratificatoria, in violazione dell’articolo 72 della Carta e della riserva di regolamento parlamentare da questo stabilito.
Ma ciò è avvenuto, per saggia determinazione della Prima Commissione del Senato, su iniziativa emendativa del Presidente di questa, solo per la definizione dei LEP, sia pure con la discutibile statuizione per relationem dei princìpi e criteri direttivi, mediante rinvio all’articolo 1, commi da 791 a 801-bis, della legge 29 dicembre 2022, n. 197: articolo 3, ddl 615. Forse nella concitazione del dibattito non sarebbe stato possibile fare altrimenti; tuttavia, la concitazione va superata nell’interesse superiore di una legislazione adeguata alla complessità della materia, dell’alta opportunità di soluzioni condivise, della piena conformità ai valori costituzionali implicati.
Ora, il tema dell’irrigidimento delle norme-parametro delle singole leggi di devoluzione non è affatto un’ubbia da costituzionalisti, poiché, se non lo si affronta compiutamente, il processo di attuazione della legge “di principio” ora in approvazione, che già si preannuncia assai complesso, sarà giocoforza disordinato e incontrollabile negli esiti, ed esposto alla illegittimità.
Non si dimentichi la lezione dei fatti: la cattiva qualità tecnica è stata un fattore di gravissima difficoltà nell’attuazione del Titolo V della Parte Seconda della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001. Tra tali difficoltà v’è anche quella derivante dalla mancata previsione di una chiara sequenza legislativa di attuazione dell’articolo 116, comma 3: da tale carenza nascono le incertezze odierne.
L’eventuale dissociazione tra legge “di principio” (cioè la legge risultante dall’approvazione del ddl in esame) e leggi di devoluzione alle singole Regioni potrebbe essere, invero, sanzionata solo in sede di giudizi di costituzionalità sulla base di un parametro di ragionevolezza-razionalità, tratto dall’articolo 3 della Costituzione, definibile con molta latitudine, sicché la Corte costituzionale lo potrebbe rendere conformativo con un amplissimo margine di discrezionalità. È quanto già avvenuto per l’attuazione del Titolo V della Parte Seconda della Costituzione dopo la revisione compiutane con la legge costituzionale numero 3 del 2001: centinaia di sentenze della Corte costituzionale, che hanno avuto il merito di rimettere in asse il sistema, ma che hanno condotto, collateralmente, a deprivare il legislatore politico della sua funzione.
2. Il documento del CLEP
Sul versante dei meccanismi necessari a fronteggiare i divari nelle prestazioni nel campo dei diritti civili e sociali in caso di differenziazione delle funzioni con attribuzione delle corrispondenti risorse erariali, va fatto notare che la determinazione dei LEP secondo le risultanze consegnate al Documento finale elaborato dal Comitato tecnico scientifico con funzioni istruttorie per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni (CLEP), riveste utilità molto parziale.
Da tale Documento si evince che il CLEP ha rinunciato a definire in via preliminare la nozione stessa di LEP, rinviandone la responsabilità al decisore politico: «la determinazione puntuale della nozione LEP appartiene a un momento successivo nel quale la componente tecnica, giuridica ed economica, non è la sola a rilevare. Poiché dal modo di tratteggiare la nozione LEP possono discendere conseguenze per la finanza pubblica in termini assoluti, conseguenze redistributive e allocative in termini relativi, non può che spettare al decisore politico la responsabilità di questa definizione», afferma il Documento (pag. 16). Ma era proprio da un organo tecnico-scientifico quale il CLEP che il decisore politico attendeva la nozione di LEP, ottenuta integrando conoscenze giuridiche, economiche/econometriche.
Pertanto, nonostante il pregevole impegno di molti dei componenti del CLEP, studiosi di grande esperienza e presenti da lunghissimo tempo nel dibattito scientifico sul regionalismo, il prodotto reso disponibile per la decisione legislativa, anche per la fretta impressa al lavoro, non è all’altezza della missione affidata all’organismo tecnico: i LEP sono formulati in termini molto generici, consistendo talvolta in mere dichiarazioni di principio, prive di significativi e specifici criteri di misurabilità e insuscettibili di «declinazioni operative», essendo rimasto inascoltato il richiamo a una precisazione in tal senso prodotto dal Presidente della Banca d’Italia (lettera del 10 ottobre 2023).
Soprattutto, in assenza di premesse metodologiche, si mostra del tutto priva di fondamento dimostrativo la distinzione tra funzioni LEP e funzioni non-LEP, queste ultime suscettibili, per la loro stessa natura, di devoluzione immediata, senza attendere la definizione previa dei LEP (articolo 4, comma 2, ddl 1665): tanto si ricava anche dalla nota inviata il 30 ottobre 2023 al Presidente del CLEP dai componenti del Sottogruppo 5, e sottoscritta da altri componenti del CLEP, della quale non si è ritenuto di dare conto nel Documento finale.
È perciò irragionevole e fonte potenziale di sperequazioni non rimediabili la richiamata diversità di regime quanto alla devoluzione tra funzioni LEP e funzioni non-LEP: è altamente consigliabile che la delega contenuta nell’articolo 3 ddl 1665 sia estesa anche alla definizione di tale demarcazione, integrando i princìpi e criteri direttivi con la determinazione dei criteri operativi necessari a determinare i LEP. Per la fase intermedia, occorrerà stabilire che nessuna devoluzione sarà possibile, non solo se non sarà stata definita la demarcazione in discorso, ma anche se non saranno stati definiti i LEP, rifuggendo la logica delle due fasi, poiché, in tutta evidenza, il trasferimento immediato di funzioni non-LEP comporterebbe un assorbimento irreversibile di risorse rendendo definitivo il divario, così compromettendo la conformità dell’intero processo all’articolo 119, comma 3, della Costituzione.
L’intera sequenza legislativa prefigurata dal ddl 1665 non prevede in nessun luogo un’analisi delle funzioni (la loro dimensione obiettiva, la loro corrispondenza alla dimensione dell’interesse, la corrispondenza della loro spettanza a ragioni di economia di scala o di economia di scopo) come premessa necessaria alla devoluzione differenziata delle competenze. Anche su questo versante, la delega legislativa andrebbe integrata rendendo necessaria un’analisi di impatto settore per settore.
3. Il difetto d’origine
La riforma costituzionale del 2001, relativa al Titolo V, introduce all’articolo 116 la possibilità di regionalismo differenziato «nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119», articolo che tuttavia si è rivelato nei fatti inattuabile. Infatti il 119 con una sorta di iper-correttismo (rispetto a una situazione ormai già superata negli anni ’90) esclude i trasferimenti dal bilancio statale come forma normale di finanziamento (una preclusione che non si ritrova neanche in Stati compiutamente federali) , limitandone il ruolo al fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale e agli interventi speciali in favore di determinati enti territoriali. Nell’elenco delle fonti di entrata, alle generiche «quote di tributi erariali» (che potevano includere trasferimenti e compartecipazioni) della vecchia formulazione si sono sostituite «compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio». Dal punto di vista della responsabilità finanziaria queste, non essendo manovrabili dagli enti territoriali, hanno gli stessi difetti dei trasferimenti ma hanno un pregio: possono assicurare agli enti territoriali una garanzia sull’evoluzione dell’ammontare di risorse che riceveranno dal bilancio statale. Ciò, tuttavia, avviene solo se l’aliquota di compartecipazione è fissa, come avviene per le Regioni a statuto speciale (dove sono modificabili solo con legge costituzionale). Ma un sistema generalizzato di compartecipazioni ad aliquota fissa è molto pericoloso per l’equilibrio del bilancio pubblico. Emblematico il caso dell’Argentina (una Repubblica federale) negli anni ’90: in uno sforzo di risanamento finanziario, il governo centrale aumentò in misura significativa la pressione fiscale, ma, dato il regime di compartecipazione, quasi il 60% dell’incremento di entrate affluì alle Province che aumentarono corrispondentemente le spese.
Vale forse la pena ricordare che il decentramento fiscale per sua natura comporta un gap fiscale verticale, vale a dire una situazione in cui le entrate proprie degli enti sub-nazionali sono insufficienti a finanziare le spese loro assegnate. Ciò avviene perché è ristretto l’ambito delle basi imponibili e dei tributi che è possibile devolvere ai governi locali senza distorcere eccessivamente il sistema tributario. Tuttavia per favorire la responsabilizzazione finanziaria dei governi locali non è necessario colmare il gap verticale (vale a dire rendere autosufficienti tali governi), ciò che conta è il modo in cui viene finanziata la spesa al margine. Lo Stato centrale può ben finanziare i governi locali fino a un determinato livello di spesa, oltre il quale i governi locali devono ricorrere a fonti di entrata proprie (tributi, tariffe o, se consentito, indebitamento). In sintesi, dal punto di vista della responsabilità finanziaria sostituire compartecipazioni a trasferimenti non fa fare alcun progresso, ma può mettere a repentaglio la tenuta complessiva del sistema.
L’aspetto cruciale è lo spazio di autonomia tributaria di cui godono i governi locali: deve essere tale da permettere di finanziare eccedenze di spesa (per colmare disavanzi imprevisti o per fornire prestazioni aggiuntive). Al contrario, la storia degli ultimi venti anni mostra un progressivo depotenziamento dell’autonomia tributaria, dovuto al restringimento delle basi imponibili dei tributi locali. È un problema serio che mette in discussione la stessa giustificazione del decentramento: la accountability politica dei governi locali rispetto al proprio elettorato. Abbastanza clamoroso è il caso dei Comuni, ormai finanziati solo dai proprietari di seconde case, residenti e non (per l’esclusione dall’Imu della prima casa dei residenti), e dai lavoratori dipendenti e pensionati residenti nonché dai professionisti non in regime sostitutivo (mentre i regimi sostitutivi dell’imposta sul reddito per lavoratori autonomi e professionisti esonerano dal pagamento dell’addizionale all’Irpef). Una tendenza simile va registrata per le Regioni, come si è visto, riguardo alle basi imponibili dell’addizionale Irpef e dell’Irap. Tendenza che appare destinata a rafforzarsi nei prossimi anni, a giudicare dal disegno di legge delega per la riforma fiscale che prevede il superamento dell’Irap e la sua sostituzione con una sovrimposta all’imposta sul reddito delle società di capitali, che per sua natura non è opportuno differenziare nel territorio. Secondo la norma, alle Regioni sottoposte a piani di rientro dal disavanzo sanitario, che oggi comportano l’applicazione automatica di aliquote dell’IRAP maggiori di quelle minime, sarà comunque garantita l’invarianza del gettito (se così fosse, di fatto le società di capitali di tutto il paese contribuirebbero a finanziare il disavanzo sanitario di quelle Regioni).
4. Chiarezza sui residui fiscali
L’idea della titolarità, in capo alle Regioni, del gettito raccolto nel territorio porta alla nozione dei residui fiscali, un elemento centrale del dibattito italiano su decentramento e federalismo negli ultimi anni e, in buona parte, alla base delle richieste di autonomia differenziata. I residui fiscali sono la differenza tra quello che in un territorio si raccoglie (da parte di tutti i livelli di governo) come imposte e altre forme di entrate pubbliche e la spesa pubblica (di tutti i livelli di governo) che beneficia i residenti di quel territorio. Un residuo fiscale positivo indica che in un determinato territorio si raccolgono più imposte di ciò che si spende e viceversa. Le Regioni con un residuo fiscale positivo (i residenti pagano più imposte rispetto alla spesa che ricevono) sono essenzialmente quelle a statuto ordinario del Nord, soprattutto Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto. Per le Regioni del Sud (ma anche per quelle a statuto speciale del Nord), al contrario, i residui sono negativi (la spesa pubblica è maggiore delle imposte).
Ma cosa genera i residui fiscali? Sono il frutto di politiche pubbliche dirette a favorire particolari aree del paese? La risposta è negativa. I residui traggono origine semplicemente da politiche nazionali che definiscono i beneficiari senza tener conto della loro residenza. Le principali voci di spesa – previdenza, sanità, istruzione – sono ripartite tra i cittadini sulla base di criteri uniformi su tutto il territorio nazionale. Naturalmente i benefici dei singoli programmi di spesa possono affluire in modo diversificato ad aree territoriali diverse. Così, in aree in cui vi sono più persone anziane, la spesa per previdenza e sanità sarà più alta, mentre laddove è maggiore la presenza di giovani in età scolare sarà più elevata quella per l’istruzione. Il finanziamento di queste spese si basa su un sistema tributario e contributivo che nel suo insieme è approssimativamente proporzionale. Data la spesa, se in un’area sono più presenti persone che hanno redditi alti, quell’area si ritroverà con un residuo fiscale positivo perché pagherà in media più imposte di altre aree con una minore concentrazione di redditi alti. Non c’è nessun trasferimento di risorse da, diciamo, la Lombardia alla Calabria che riguardi individui con lo stesso reddito e le stesse caratteristiche individuali (età, stato di salute, ecc.): un residente in Calabria con un reddito di 50.000 euro è trattato allo stesso modo di un residente in Lombardia con lo stesso reddito. Da un punto di vista etico, la nozione di residuo fiscale ha senso solo se riferita agli individui e, secondo un’impostazione liberale, un sistema federale dovrebbe garantire l’uguaglianza dei residui fiscali a livello individuale: due persone che sono nelle stesse condizioni devono essere trattate nello stesso modo a prescindere dal loro luogo di residenza. In definitiva, i residui fiscali sono soltanto il portato di politiche nazionali: se si vogliono eliminare o ridurre occorre che quelle politiche nazionali nel tempo si ridimensionino. Accettando così che la residenza diventi un fattore rilevante per differenziare il trattamento tra le persone.
5. I rischi di un Paese Arlecchino
Uno dei rischi più paventati dagli oppositori al regionalismo differenziato è la cosiddetta “secessione dei ricchi”, con le regioni più ricche che si tengono i tributi nazionali incassati nel proprio territorio e se ne vanno per la propria strada, lasciando il resto del paese ad accontentarsi delle risorse residue.
Non c’è dubbio che questo è il progetto che è stato raccontato dalla Lega ai propri sostenitori ai tempi del referendum per l’autonomia nel 2017. Il Veneto o la Lombardia vorrebbero diventare come il Trentino o le altre regioni/province a statuto speciale che, appunto, si tengono gran parte dei tributi incassati nel proprio territorio. Una devoluzione delle risorse in stile Trentino, tuttavia, non è mai stata contemplata, nemmeno nelle versioni precedenti del documento. È però vero che una possibile interpretazione dell’originario disegno di legge del ministro Calderoli poteva andare in questa direzione. Le regioni che avessero ottenuto una devoluzione di funzioni avrebbero avuto le risorse per finanziarle sotto forma di compartecipazioni ad aliquota fissa sui tributi nazionali incassati sul proprio territorio, contando poi su una maggiore dinamica della propria base imponibile rispetto alla spesa da finanziare per appropriarsi di maggiori risorse, con tutti i rischi che questo avrebbe poi comportato in termini di tenuta dei conti pubblici e di perequazione rispetto al resto del territorio. Ma almeno alla luce delle modifiche apportate al comma 2 dell’articolo 8, il rischio non c’è più.
L’articolo 8, infatti, ora prevede una Commissione paritetica che procede «annualmente alla ricognizione dell’allineamento tra i fabbisogni di spesa già definiti e l’andamento del gettito dei tributi compartecipati». In particolare, si adotteranno «le necessarie variazioni delle aliquote di compartecipazione definite (…) garantendo comunque l’equilibrio di bilancio e nei limiti delle risorse disponibili». Tali modifiche si possono rendere necessarie sia perché può variare il «livello essenziale» delle prestazioni (a causa di mutate condizioni tecnologiche o del contesto socioeconomico: nuovo articolo 3, comma 7), sia perché possono mutare le disponibilità di bilancio. Il legislatore sembra dunque aver in mente un modello in cui ogni anno si aggiornano le compartecipazioni attribuite alle regioni in modo da garantire un trasferimento di risorse che soddisfi i fabbisogni di spesa come individuati dai Lep, i famosi livelli essenziali delle prestazioni, che già definiti dalla commissione Cassese dovrebbero essere ora quantificati (e il provvedimento approvato al Senato si dà ora altri due anni per farlo). Il pallino resterebbe dunque nelle mani dello stato centrale che ogni anno deciderebbe quante risorse attribuire alle regioni per le funzioni devolute. Non c’è nulla di nuovo in tutto questo. Si tratta dello stesso schema che viene adottato per il finanziamento della sanità. Le regioni non partecipano con loro tributi al finanziamento delle funzioni devolute, ma queste sono semplicemente finanziate di anno in anno dallo stato centrale in base alle risorse rese disponibili centralmente dalla legge di bilancio, secondo uno schema così detto top-down. Tuttavia, sebbene sia saltato il rischio delle compartecipazioni fisse (o meglio solo rivedibili al rialzo come sembrava nella prima versione) e il modello che si ha in mente sia quello della sanità, appare un ulteriore aspetto del Paese Arlecchino la complicazione, sicuramente fonte di ulteriore burocrazia e forse anche d’iniquità, di trattative differenziate annuali con le diverse regioni e su un set di materie potenzialmente diverse.
La necessità di assicurare la compatibilità con gli equilibri di bilancio trasforma i LEP da livelli di servizio “assoluti”, garantiti costituzionalmente. a livelli di servizio minimi “relativi”. Per capirsi, si immagini che ci siano solo due regioni, A e B, e che per A si identifichi un LEP che implica un costo pari a 10 mentre per B un costo pari a 20. Il totale delle risorse necessarie a finanziare i Lep “effettivi” (in base a un approccio bottom-up) sarebbe dunque di 30 e i coefficienti impliciti di assegnazione delle risorse (basati sui LEP) diventerebbero un terzo per A e due terzi per B. Ma se le risorse compatibili con gli equilibri di bilancio sono soltanto 20 (invece di 30, quelle che servirebbero per garantire i livelli “assoluti” di servizio), i coefficienti relativi possono soltanto diventare criteri di riparto, assegnando alla regione A un terzo dei 20 (6,7) e alla regione B due terzi di 20 (13,3). In questo senso, i LEP diventano livelli di servizio minimi “relativi” date le risorse a disposizione (solo 20).
Dal punto di vista finanziario, quindi, questa legge non dà alcuna autonomia alle regioni. Difficile parlare di “secessione dei ricchi” in condizioni nelle quali è lo stato a stabilire la dimensione dei fondi per ciascuna regione. A meno che, appunto, i fabbisogni dei cittadini non siano differenziati in proporzione alla capacità fiscale, come previsto dalle preintese del 2018.
In ogni caso, la soluzione per razionalizzare la finanza territoriale è già scritta tra gli impegni del PNRR, il quale prevede la riforma del quadro fiscale subnazionale, che consiste in sostanza nel completamento del federalismo fiscale previsto dalla legge 42 del 2009, con l’obiettivo di migliorare la trasparenza delle relazioni fiscali tra i diversi livelli di governo, assegnare le risorse alle amministrazioni locali sulla base di criteri oggettivi e incentivare un uso efficiente delle risorse. La riforma, da completare entro il primo trimestre del 2026, dovrà definire, in particolare, i parametri applicabili e attuare il federalismo fiscale per le regioni a statuto ordinario, oltre che per le province e le città metropolitane. E’ del tutto logico pertanto che ogni ragionamento sul finanziamento delle funzioni statali regionalizzate, sia per le materie LEP, sia per quelle non LEP, avvenga solo nel quadro e quindi a valle dell’attuazione della riforma inquadrata nel PNRR.
6. Le contraddizioni sui LEP
Detto che la loro quantificazione finanziaria verrà stabilita nei prossimi due anni, il provvedimento continua a non risolvere alcune contraddizioni di fondo su come i LEP devono essere definiti in pratica. Ad esempio, l’articolo 9 al terzo comma garantisce l’invarianza finanziaria per le regioni che non partecipano ad alcuna intesa. Questo di fatto tutela la spesa storica delle regioni che non chiedono l’autonomia. Anche un eventuale aumento delle risorse dedicate al finanziamento dei LEP delle funzioni devolute non può «pregiudicare l’entità e la proporzionalità delle risorse da destinare a ciascuna delle altre regioni». Quindi se si aumentano le risorse necessarie a soddisfare i LEP delle regioni che hanno chiesto la devoluzione delle funzioni, l’aumento non può violare la proporzione in cui erano ripartite le risorse prima delle intese. Ciò vuol dire che bisogna anche aumentare le disponibilità delle regioni che non chiedono l’autonomia. Si certifica di fatto che la distribuzione delle risorse dopo le intese non può discostarsi dal criterio della spesa storica. La stima di fabbisogno e costo standard per soddisfare i LEP dovrebbe determinare una allocazione di risorse che consenta a un cittadino residente in Calabria di avere accesso agli stessi servizi di un cittadino residente in Piemonte. Le proporzioni con cui è attualmente distribuita la spesa consentono di arrivare a questo risultato? Se sì, cosa ovviamente non vera, allora di fatto ciò equivarrebbe a dire che i LEP sono già garantiti ovunque sul territorio nazionale, cioè si cambierebbe tutto per non cambiare niente. In caso contrario, il provvedimento legislativo dovrebbe allora risolvere alcune contraddizioni che ne impediscono l’attuazione.
Dove il provvedimento può creare rischi seri per il paese? Un punto chiave, spesso dimenticato nel dibattito, è che, con l’approvazione definitiva del provvedimento da parte della Camera, le regioni potranno cominciare a chiedere subito maggiore autonomia sulle materie per le quali non è necessario stimare i Lep. Quali siano si può capire per differenza dall’articolo 3 del provvedimento che, rispetto all’originaria versione del ddl Calderoli, ora elenca le materie su cui è necessario stimare i LEP (senza i quali non è possibile procedere alle intese per la loro devoluzione).
Le materie escluse riguardano tutte funzioni di tipo regolamentare; è il caso, ad esempio, del commercio con l’estero, la previdenza complementare e integrativa, le banche di interesse regionale, professioni e così via. È evidente il rischio che l’attribuzione di tutte queste funzioni alle regioni – anche solo ad alcune – possa creare una babele normativa e una moltiplicazione delle burocrazie, a scapito dell’efficienza del sistema complessivo. Rischi, per il momento rinviati, si hanno anche sulle materie che richiedono la stima dei LEP. Tra queste ve ne sono alcune che identificano chiaramente beni pubblici nazionali o addirittura globali. Si pensi ad esempio alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema. È chiaro che non si può pensare a una normativa efficace per l’ambiente valida solo all’interno dei confini regionali (per esempio, che posizione terrà il Veneto alla prossima Cop?).
Naturalmente, quali funzioni verranno effettivamente attribuite alle regioni dipende dalle intese che si stipuleranno tra lo stato e ogni singola regione, e se una regione può chiedere tutto quello che vuole nell’ambito delle materie indicate, sta poi allo stato decidere. Ma qui è l’altro problema fondamentale del provvedimento approvato. Al di là di alcune affermazioni generalissime in apertura del documento, non ci sono criteri espliciti, basati su un ragionamento sull’efficienza relativa di attribuire una funzione alla regione o allo stato, che guidino la contrattazione. Tutto è lasciato alla mediazione politica, cioè alla contrattazione tra gli esecutivi, con il Parlamento che si limita ad approvare un accordo già trovato. Non si tratta di un viatico molto promettente per una devoluzione “responsabile”.
7. Le materie non LEP: 184 funzioni statali trasferibili
Il ddl Calderoli introduce una sorta di corsia preferenziale per il trasferimento di funzioni nell’ambito delle materie cosiddette non-LEP, così come individuate (con le problematiche che si sono evidenziate) dal CLEP. Sono materie tutt’altro che residuali, non di rado di peculiare interesse del mondo produttivo. Eccole, con l’indicazione per ciascuna del numero di funzioni potenzialmente interessate al trasferimento, in base alla Ricognizione effettuata nel 2023 dall’Ufficio legislativo del ministro degli Affari regionali e le Autonomie:
- Rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni (16 funzioni)
- Commercio con l’estero (21 funzioni)
- Professioni (55 funzioni)
- Protezione civile (41 funzioni)
- Previdenza complementare e integrativa (18 funzioni)
- Coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario (8 funzioni)
- Casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale (18 funzioni)
- Enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale (le stesse funzioni della voce precedente)
- Organizzazione della giustizia di pace (7 funzioni)
La semplice valutazione numerica porta a individuare 184 funzioni potenzialmente trasferibili nell’arco di pochi mesi con la procedura individuata dal ddl Calderoli, una volta che il testo sia licenziato dal Parlamento. Una procedura che, va ricordato, non prevede alcuna valutazione preliminare d’impatto della devoluzione.
Tra le attività statali regionalizzabili, se ne segnalano alcuni cha appaiono particolarmente rilevanti per impatto potenziale diretto o diretto sull’organizzazione del sistema produttivo, a causa del moltiplicarsi in ciascun territorio di norme, regolamenti, albi professionali e del frazionamento delle politiche di sviluppo o di sostegno nazionali.
A titolo esemplificativo ecco alcune funzioni regionalizzabili in base alle tre bozze di accordo definite nel corso delle trattative dirette, con sedute non pubbliche, intercorse fra Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto e il governo Conte I. L’esecutivo era in quella occasione rappresentato dal ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, la leghista veneta Erika Stefani, e dal sottosegretario Stefano Buffagni, lombardo, dei Cinquestelle. Entrambi esplicitamente favorevoli al processo di autonomia differenziata così come richiesto dalle regioni e introdotto come tema prioritario nel programma del governo rimasto in carica dal primo giugno 2018 al 4 settembre 2019.
La Regione Lombardia per la materia Rapporti internazionali acquisiva il diritto di «partecipazione nella fase interna di definizione della posizione nazionale, anche tramite la partecipazione nell’ambito di accordi con Stati confinanti che abbiano immediata ricaduta sul territorio regionale, volta a permettere alla Regione di avanzare proposte di interesse regionale». Inoltre, nei rapporti tra l’Italia e l’Unione europea si prevedeva per la Regione «il coinvolgimento nella predisposizione dei documenti di programmazione nazionale». Il Veneto conquistava «competenze legislative e amministrative» in merito ai «rapporti delle Regione con gli uffici di organizzazioni internazionali aventi sede del Veneto al fine dello sviluppo e del consolidamento di progetti e programmi di rilevanza internazionale promossi dalle Università e dalle imprese venete». Una formula analoga a quella del Veneto si ritrovava nella bozza di intesa dell’Emilia-Romagna.
Sul commercio con l’estero, la Regione Veneto e la Regione Emilia Romagna avrebbero acquisito competenze legislative e amministrative per promuovere «le produzioni» venete/emiliane e della romagna «all’estero e per l’estero tenuto conto delle linee prioritarie annualmente concordate in sede di Cabina di regia per l’Italia internazionale», nonché «il marketing territoriale», «l’attrazione di investimenti esteri in Veneto, in collaborazione e raccordo con l’azione del Comitato Interministeriale per l’attrazione di Investimenti esteri». In aggiunta a tali funzioni, la Lombardia aveva concordato la possibiità di «istituire marchi collettivi indicanti l’origine geografica dei prodotti, accessibili a tutti i produttori europei, nel rispetto della normativa nazionale e dell’Unione europea, da registrarsi secondo quanto previsto dai regolamenti europei e dal Codice della proprietà industriale».
Normativa nazionale che può essere in taluni casi derogata. In particolare, in materia di Protezione civile la bozza della Lombardia prevedeva che «per eventi calamitosi che per natura ed estensione sono da considerarsi di livello regionale le ordinanze di protezione civile» sono «emanate dal Presidente della Regione Lombardia. Le ordinanze sono emanate in deroga alla legge regionale e alle leggi statali vigenti così come individuate in sede di Commissione paritetica di cui all’art. 3 delle Disposizioni Generali della presente Intesa».
Sulle professioni, nelle bozze del 2019 si stabiliva che «alla Regione Veneto sono attribuite le competenze legislative volte a rafforzare il proprio ruolo in relazione alle professioni non ordinistiche, anche istituendone di nuove purché riguardanti competenze connesse alle caratteristiche specifiche regionali». La Lombardia, oltre a prevedere tale norma quadro, entrava nel dettaglio nel chiedere le competenze «legislative e amministrative in materia di ordinamento della professione di maestro di sci, guida alpina e accompagnatore di media montagna».
Per la previdenza complementare «alla Regione Veneto è attribuita la potestà legislativa di disciplinare il funzionamento di forme collettive di previdenza complementare e integrativa istituite nel territorio regionale». La Lombardia andava oltre, autoassegnandosi «il gettito dell’imposta sostitutiva sui rendimenti dei fondi pensione istituiti ai sensi del presente articolo». Quanto al coordinamento della finanza, di fatto era svuotato dalla concessione alla Regione Veneto della «piena autonomia sui tributi regionali e sulla tassa automobilistica» e del «pieno riconoscimento della titolarità del gettito derivante dall’attività di controllo e recupero dell’evasione fiscale e dagli istituti di tax compliance deflativi del contenzioso» in relazione non solo «ai tributi regionali» ma anche «alle compartecipazioni al gettito o alle riserve di aliquote ai tributi erariali attribuite alla Regione Veneto». Inoltre, si prevede l’istituzione di «sezioni speciali nell’ambito di fondi nazionali a favore delle imprese» mediante «un provvedimento adottato dalla Regione, d’intesa con il ministero dello Sviluppo economico». La Lombardia chiedeva anche «competenze legislative e amministrative volte a concedere incentivi, contributi, agevolazioni, sovvenzioni e benefici di qualsiasi genere, nel rispetto delle norme dell’Unione europea sugli aiuti di Stato».
Come si possano raccordare incentivi e benefici locali e nazionali è tema che non sembra tangere la singola Regione, la cui diretta preoccupazione è garantirsi in modo perpetuo la propria fetta di risorse. La norma più esplicita in merito la si ritrova nell’articolato dell’Emilia-Romagna a corollario delle richieste di funzioni per l’internazionalizzazione e la promozione del commercio con l’estero. Eccola: «Per l’esercizio effettivo delle competenze di cui ai precedenti commi, sono assegnate alla Regione risorse adeguate, certe e programmabili nel tempo».
(*) a cura di Massimo Bordignon, Marco Esposito, Giuseppe Pisauro e Sandro Staiano