La sfida delle riforme: dall’autonomia irrazionale a un’Italia competitiva e solidale
di Antonio D’Amato, Presidente Fondazione Mezzogiorno
E’ tornato alla ribalta del dibattito politico italiano, come ad ogni inizio legislatura, il tema delle riforme istituzionali. Ancora una volta, anziché, affrontarlo nella sua interezza e complessità, si commette l’errore di procedere a strappi continuando ad accrescere una confusione di competenze che incrementa l’inefficacia del funzionamento della macchina pubblica e mette in crisi sia la governabilità del Paese, sia la sua stessa rappresentatività.
Fermiamoci, finché siamo in tempo, e recuperiamo lucidità sul metodo e sull’obiettivo.
Il metodo è il confronto nella sede propria, il Parlamento, tramite una specifica Commissione bicamerale. Questa è la proposta che la Fondazione Mezzogiorno presenta al Paese.
L’obiettivo è costruire un’Italia competitiva e solidale. Su ciò la Fondazione Mezzogiorno è pronta a mettere a disposizione il suo bagaglio di competenze e di esperienze.
Un’Italia competitiva: la Riforma dello Stato e delle sue articolazioni, della forma stessa di governo, è fondamentale non solo per il funzionamento della vita democratica, ma per evitare che la moltiplicazione di diritti di veto e di pastoie burocratiche finisca per paralizzare il Paese, mentre occorre ridare competitività ed efficienza al sistema economico e industriale.
Un’Italia solidale: gli squilibri socioeconomici che nel corso degli ultimi decenni si sono accentuati tra Nord e Sud impongono, nell’interesse del Paese tutto, e, quindi, dello stesso Nord, un approccio articolato e complessivo, che non può ridursi, dopo la disastrosa riforma del titolo V della Costituzione e i suoi successivi rimaneggiamenti, alla riforma delle autonomie di cui si parla in questi mesi, riforma che prescinde da una riconsiderazione complessiva di come lo Stato debba funzionare.
Va fatta chiarezza su un punto: è estremamente pericoloso intervenire sul regionalismo, addirittura differenziato, accelerando l’entropia del sistema.
Ci sono invece tre motivi per affrontare per prima la riforma dello Stato, delle sue articolazioni, della sua stessa forma di governo.
Il primo: senza aumentare la governabilità a livello sia centrale, sia territoriale l’Italia non è in grado di rispondere agli standard minimi di buon governo e di buon funzionamento della cosa pubblica da garantire ai cittadini.
Il secondo: l’Italia è l’unico paese in Europa, insieme con la Grecia, ad avere un tasso di occupazione della popolazione attiva di appena il 60 per cento, mentre tutti gli altri paesi europei sono tra il 70 e il 75 per cento. Sappiamo tutti che il 60 per cento italiano è composto da un 70/75 per cento del Nord e da un 40/42 per cento del Mezzogiorno. L’unica opportunità che abbiamo di riequilibrare il rapporto debito pubblico/Pil a livello nazionale è far crescere di venti punti il tasso di occupazione del Mezzogiorno, per arrivare al 70 per cento di media nazionale nella popolazione attiva occupata.
Il terzo: senza un’Italia salda dal punto di vista finanziario è la stessa Europa a rischio nella sua tenuta complessiva.
E’ per questa ragione che l’Europa ha destinato risorse così ingenti al nostro Paese, proprio con l’obiettivo fondamentale di ridurre il gap tra Nord e Sud, condizione indispensabile per stabilizzare la tenuta finanziaria dell’Italia, quindi politica e istituzionale dell’Europa. Ma quel piano, il Pnrr, rischia di
impantanarsi proprio perché non abbiamo sciolto come sistema Italia il nodo dell’efficienza dell’apparato burocratico e dell’incapacità di realizzare infrastrutture competitive.
Ecco perché prima di procedere in direzione di una ulteriore frammentazione dell’articolazione statale, va fatta una riflessione su cosa il regionalismo abbia rappresentato nel corso di questi oltre cinquant’anni.
E’ un fatto accertato che la crescita esponenziale del debito pubblico italiano sia legata in maniera rilevante, seppur non esclusiva, proprio all’attuazione del regionalismo.
In secondo luogo, è un fatto, anch’esso acclarato nella storia economica della Repubblica, che il divario Nord-Sud del Paese si sia ridotto per due decenni fino al 1970, quando la prima Cassa del Mezzogiorno aveva le competenze e il ruolo di programmare, progettare e realizzare quelle opere infrastrutturali e quelle politiche di sviluppo che hanno rappresentato la fase più solida della crescita dell’economia, dell’industria e della società del Mezzogiorno e, con esso, dell’Italia tutta. Il divario ha ricominciato a crescere qualche anno dopo l’istituzione delle Regioni e la conseguente regionalizzazione delle politiche di sviluppo del territorio creando così un divario che per dimensioni e durata non ha eguali nella storia economica moderna dell’Europa.
D’altro canto, è conclamata l’inefficacia di tanti anni di fondi strutturali, investiti tardi e male dalle Regioni con un ricorso continuo ai cosiddetti progetti sponda e senza che si lasciasse sul territorio alcun significativo, misurabile e duraturo vantaggio competitivo che potesse in qualche modo contribuire al rafforzamento dell’economia, all’attrazione degli investimenti e al miglioramento delle condizioni di vita.
E’ ovvio che tutto questo non è sostenibile se si guarda a come altri Paesi dell’Europa dell’Est e del Mediterraneo, dal Portogallo alla Polonia, oltre che dell’Irlanda, hanno saputo fare migliore uso delle risorse comunitarie
attraverso una politica di concentrazione e aggiuntività degli investimenti, coordinata e realizzata in maniera molto efficace dai governi nazionali.
Ancor più significativo è il breve tempo con il quale la Germania, all’indomani della sua riunificazione, ha affrontato e risolto un divario che non era solo economico e sociale, ma culturale e di vero e proprio deficit democratico.
Un risultato possibile grazie a uno sforzo straordinario, non solo sul piano finanziario, ma, soprattutto, sul piano politico, morale e civile. Sforzo che noi abbiamo conosciuto soltanto all’inizio della nostra storia repubblicana, ai tempi della cosiddetta coerenza meridionalistica con la quale Alcide De Gasperi allineava ogni politica di sviluppo e di crescita dell’Italia del dopoguerra e di cui da troppo tempo non si vede traccia.
Diversa da questo spirito e da questo approccio è, infatti, la visione, o la fuga, verso un regionalismo astratto che ancora porta con sé il significato un po’ nostalgico di una visione federalista, se non secessionista, del nostro Paese, che faceva il paio con quella illusoria “Europa delle regioni” che all’inizio degli anni Novanta alcuni pensavano potesse essere il modo migliore per affrontare la competizione tra i territori nel mondo globale. E’ su quel solco che nel 2001 si inserì lo strappo rappresentato dalla riforma del titolo V della Costituzione che
– ponendo sullo stesso piano dello Stato Regioni, Province, Citta metropolitane e Comuni – finì per moltiplicare i diritti di veto creando una paralisi politico-istituzionale dalla quale non siamo più usciti.
E’ per tutto questo che una riforma del regionalismo non può che essere ricondotta nell’alveo di un più articolato e complessivo progetto di riforma dello Stato e della forma di governo. Anche su questo tema si è discusso da tempo, con l’incapacità di trovare un punto di consenso rispetto a quegli interventi, anche di ridotta portata rispetto a ipotesi più complessive, ad esempio l’assetto presidenziale della forma di governo.
Il confronto ideologico, spesso sterile, i tatticismi di carattere elettorale hanno finito per mortificare un confronto tra le forze politiche che sarebbe dovuto essere, e che oggi dovrebbe essere, improntato ai principi più alti di salvaguardia dei valori repubblicani e unitari che sono alla base dello spirito del
nostro dettato costituzionale.
Il paradosso di questi ultimi decenni è che, da un lato, le carenze evidenti della nostra Carta costituzionale non sono state affrontate in nome della sua sacralità, ma, al tempo stesso, proprio coloro che ne invocavano la sacralità non hanno esitato a strattonarla e a improvvidamente emendarla quando ne trovavano le proprie convenienze di opportunismo politico di breve periodo.
Perciò diciamo: fermi tutti.
Lo diciamo da Sud, con la Fondazione Mezzogiorno, perché è nel Mezzogiorno d’Italia che in misura più netta si avvertono le crisi che attraversano il Paese: demografica, sociale, istituzionale, di competitività.
E perché, nello stesso tempo, solo uno sviluppo sociale ed economico del Mezzogiorno può riscattare l’Italia dal declino, può – in altri termini – guarirla.
Lo diciamo da Sud non per inseguire la simmetria degli egoismi territoriali, bensì consapevoli con ciò di fare l’interesse economico diretto anche delle regioni più forti e più ricche del Nord. A prescindere da valori ideali come il senso d’unità nazionale, sarebbe del tutto miope pensare di poter competere nel mondo senza avere alle spalle un sistema Paese che abbia dimostrato di saper risolvere i suoi squilibri strutturali mettendo così in sicurezza anche il rapporto debito pubblico – PIL.
Lo diciamo da Sud con uno sguardo ampio, europeo e mediterraneo, convinti che solo un’Italia forte e unita può giocare un ruolo da protagonista nella costruzione di un’Europa più competitiva sul piano economico, più unita sul piano politico e più efficace sul piano istituzionale; quell’Europa cioè sempre più indispensabile per garantire pace, governance e stabilità in un mondo sempre più in disordine e sempre più afflitto da crisi e tensioni geopolitiche.
Le proposte della Fondazione in sintesi
Per fermare l’autonomia irrazionale e per costruire un’Italia competitiva e solidale la Fondazione Mezzogiorno invita ad aprire un dibattito franco che parta dall’analisi di cosa non stia funzionando adesso e di come intervenire in tempi rapidi, ma con operazioni di sistema.
Propone, quindi, le azioni che seguono:
- inserire il regionalismo differenziato nella prospettiva di una riforma istituzionale che, tramite una Commissione Bicamerale, intervenga complessivamente e preliminarmente sull’assetto dei poteri, razionalizzando la forma di governo e rimeditando il Titolo V della Parte Seconda della Costituzione, sia quanto al riparto delle competenze legislative e amministrative di cui agli artt. 117 e 118 Cost., sia quanto all’assetto della finanza locale definito dall’art. 119 Cost.
- individuare i fattori critici che, fin dal 2001 hanno frenato il raggiungimento degli obiettivi di competitività e di solidarietà del sistema Italia
- centralizzare le politiche per il Mezzogiorno a partire, prima che sia troppo tardi, dall’impiego dei fondi PNRR
- realizzare l’analisi tecnica delle funzioni coinvolgendo Ufficio parlamentare di bilancio, Istat, Banca d’Italia, Corte di conti e Commissione tecnica fabbisogni standard
- definire e finanziare i Livelli essenziali delle prestazioni superando il sistema dei bandi per enti locali nelle materie in cui vanno garantiti i Lep
- riformulare, in ogni caso, il disegno di legge per l’autonomia differenziata in un disegno di legge delega che definisca la sequenza decisoria, prendendo tutto il tempo necessario e chiarendo, innanzitutto, la natura delle motivazioni accettabili a favore della differenziazione
- Riordinare la finanza locale prevedendo meccanismi perequativi e di stimolo al recupero del tax gap
La totale inadeguatezza e pericolosità della proposta di regionalismo differenziato: analisi e rimedi*
(*) documento basato sui contributi di Massimo Bordignon, della Cattolica di Milano, da sei anni componente dell’European Fiscal Board; Giuseppe Pisauro, della Sapienza di Roma, per otto anni presidente dell’Ufficio parlamentare di Bilancio; Sandro Staiano, della Federico II di Napoli, presidente dell’Associazione italiana costituzionalisti e di Marco Esposito, giornalista del Mattino.
Guardiamo al contesto in cui sono avanzate le proposte di regionalismo differenziato. Recenti vicende istituzionali hanno messo in luce perduranti problemi di tenuta complessiva del sistema dei poteri, sia sul versante della forma di governo sia sul versante della forma di Stato (nell’accezione di grado di decentramento dei poteri). La pandemia ha rivelato la fragilità delle relazioni centro-periferie, con le sanità regionali in affanno, quando non al collasso, e con lo Stato incapace di arginare il rivendicazionismo locale andando oltre una contrattazione largamente informale e inefficiente con i più potenti Presidenti di Regione.
Oggi, l’attuazione del PNRR è fortemente a rischio, ancora una volta, per la debolezza del decisore politico centrale, inadeguato quanto alle determinazioni che gli spettano in via diretta, e incapace di fronteggiare il problema, facilmente prevedibile e largamente previsto, della debolezza delle macchine amministrative locali, al cospetto della quale sono stati messi in campo trattamenti palliativi, con l’invio, tardivo e quantitativamente risibile, di “truppe fresche” negli apparati. Mentre è stato completamente ignorato l’allarme di chi suggeriva, in ispecie con riferimento al Mezzogiorno, la costituzione di un’agenzia centralizzata con poteri straordinari, agile e professionalmente ben munita.
È evidente, allora, come la via maestra sia quella della urgente razionalizzazione della forma di governo, per via normativa, giacché i partiti si mostrano sempre meno propensi e meno capaci di una razionalizzazione per
via politica. E questo può farsi con l’approvazione di una nuova legge elettorale ma anche con interventi sulla disciplina costituzionale, in particolare sull’art. 94, intesi a stabilizzare il Governo e a rendere visibile il circuito della responsabilità politica, ponendo rimedio alle «degenerazioni del parlamentarismo».
Sul versante della forma di Stato, è giunto il momento di mettere mano a una nuova revisione del Titolo V, infelicemente rimaneggiato con la legge costituzionale n. 3 del 2001, rivedendo gli elenchi delle competenze, che i fatti hanno dimostrato del tutto irrazionale (non è accettabile che dopo la lezione della pandemia, perduri la frammentazione del sistema sanitario nazionale, né che, come insegna la pressione derivante dall’attuazione del PNRR, si invischino nel barocchismo delle relazioni centro-periferia, le politiche infrastrutturali, dei trasporti, dell’energia).
L’art. 119 va rivisto, rimeditando il tema della compartecipazione di Regioni ed enti locali ai tributi erariali, reintroducendo il riferimento ai divari Nord-Sud, specificando il carattere totale della perequazione e definendo con certezza la sua natura e le sue modalità. Invero, la Corte costituzionale, con una meritoria e amplissima giurisprudenza, ha fatto tutto ciò che poteva per dare senso a quell’indistinto coacervo risultante dalla legge di revisione del 2001: ha scritto le norme transitorie, ha definito i contenuti dei campi materiali, ha regolato i rapporti tra potestà amministrativa e potestà legislativa di Stato e Regioni, ha dato ordine alle sedi della cooperazione, sempre ponendo mente alla garanzia dell’unità della Repubblica. Oltre non poteva e non potrà andare.
Senza tali riforme, non saremo mai in grado di affrontare il nostro maggior problema strutturale, il divario Nord-Sud. Ma, più complessivamente, senza quelle riforme è il sistema produttivo a rischiare il collasso.
Il quadro europeo
Il regionalismo italiano non è stato la risposta e sarebbe un errore insistere
aumentando e differenziando nei territori la dose di regionalismo.
Il Next Generation EU del 2020, innova la natura dell’Unione europea, con la scelta inedita e coraggiosa di ricorrere al debito comune e con l’impegno da parte dei singoli Stati a presentare nel 2021 e perseguire entro il 2026 un pacchetto di riforme e di investimenti, con obiettivi misurabili e concordati. Tale impostazione supera lo schema tradizionale dei fondi comunitari, nei quali l’unico obiettivo davvero misurato è l’entità della spesa, e rivede alla radice il modello dell’«Europa delle Regioni», nel quale gli Stati nazionali perdevano progressivamente funzioni sia verso l’Unione europea sia verso gli enti locali.
Quel modello regionalista era già in declino con il fallimento della Convenzione europea e poi con la crisi finanziaria del 2008, da cui è nato il Consiglio europeo come nuovo esecutivo Ue. Con il Next Generation Eu si va in direzione di un recuperato equilibrio, nel quale si riprende il principio sovranazionale della Commissione ma sono gli Stati e non le Regioni ad avere un ruolo cardine, finalizzato in particolare alle sfide della transizione energetica e della coesione territoriale, questioni non affrontabili con una eccessiva frammentazione dei poteri decisionali.
E allora, secondo il razionale ordine del tempo, le riforme in premessa dovrebbero precedere ogni intervento che voglia utilizzare le possibilità di differenziazione offerte dall’art. 116, c. 3, Cost. E queste, attraverso una chiara norma di attuazione che definisca i procedimenti necessari, dovrebbero essere ricondotte nei loro giusti limiti, i quali non sono tali da consentire di vagheggiare disintegrazioni del sistema in nome del “federalismo” (qualunque cosa si voglia intendere con questo lemma, nella sovrana confusione del dibattito svolto in tema in sede politica). Ed è per quelle riforme preliminari che anzitutto i ceti produttivi del Paese, le imprese, anzitutto, sono chiamate a battersi con decisione: è in gioco la loro funzione nell’economia e nello sviluppo civile del Paese.
Limiti e rischi della proposta Calderoli
Ma, se queste sono le necessità, si deve rilevare che la proposta di regionalismo differenziato, deliberata dal Consiglio dei ministri e che ora è incardinata nel Senato della Repubblica, va in senso ostinatamente contrario. Essa, non solo è fuori della prospettiva delle riforme qui proposte, sospingendole fuori dell’agenda politica e compromettendone le sorti, ma presenta vistosi scostamenti anche dalla Costituzione vigente.
Il percorso verso un regionalismo estremo nelle materie e differenziato tra i territori sta portando il Paese verso un crinale pericoloso. Se il dibattito si concentra, come accade almeno dal 2017, sulle richieste di questa o quella Regione del Nord e sulle repliche di tale o talaltra Regione del Centro o del Sud siamo fuori rotta. È il regionalismo nato con la riforma costituzionale del 2001 che va messo in discussione alla radice.
Nel merito, perché ha generato un contenzioso alluvionale a causa dell’eccessivo spazio delle funzioni legislative concorrenti. E nel metodo, perché approvato dal centrosinistra l’8 marzo 2001 in quarta lettura al Senato con una ristretta maggioranza (171 voti favorevoli su 324 membri). Entrambi gli schieramenti politici, nel 2006 il centrodestra e poi a distanza di dieci anni nel 2016 ancora il centrosinistra, hanno provato a intervenire nuovamente sul Titolo V della Carta costituzionale ma lo hanno fatto seguendo il medesimo metodo del 2001 e cioè a colpi di maggioranza, stavolta però incorrendo in tutti e due i casi nella netta bocciatura del corpo elettorale in occasione del referendum confermativo.
Applicare oggi un comma di quella riforma mal disegnata (il terzo dell’articolo 116) per di più distorcendone il senso generale, violando le forme fissate nell’articolo 72 della Costituzione, emarginando il Parlamento, senza neppure fermarsi ad analizzare cosa in oltre vent’anni abbia funzionato e cosa no della regionalizzazione dei poteri, senza chiedersi per quali ragioni il cosiddetto federalismo fiscale non abbia portato né, come prevedibile, una riduzione della
pressione fiscale né, come invece sarebbe stato perseguibile, una maggiore responsabilizzazione dei territori significa incamminarsi verso una situazione ingovernabile. L’autonomia differenziata, in tale contesto, rischia di distruggere il Paese.
Sia chiaro: l’autonomia, in sé, è un valore perché implica responsabilità. E lo è anche la differenziazione: nessuno può immaginare che siano efficaci identici strumenti per città metropolitane o per aree interne, per territori con la piena industrializzazione e per quelli con i peggiori tassi d’occupazione d’Europa. Ma l’autonomia differenziata di cui si dibatte con acrimonia da oltre cinque anni è irrazionale perché non parte dall’analisi critica su cosa in Italia non stia funzionando e cosa l’abbia reso, drammaticamente, il Paese europeo con maggiore necessità di interventi del Recovery Fund; un dato che dovrebbe suonare come un allarme e che invece a volte sembra inorgoglirci, come se recovery non significasse necessità di cura, di guarigione e quindi non fosse la prova della malattia.
Il disegno di legge quadro
Nel corso del 2023 l’attenzione sarà concentrata sul dibattito in Parlamento intorno ai dieci articoli del disegno di legge recante «Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario». La scelta di procedere con questo tipo di disegno di legge, tuttavia, appare del tutto incongrua, per due ragioni che precedono l’esame nel merito dell’articolato del disegno di legge: la prima è che si punta ad attuare una previsione costituzionale datata 2001, distorcendone il senso, mentre, nello stesso tempo, si apre un cantiere per modificare in profondità la Carta costituzionale e quindi, presumibilmente, anche con riguardo alle materie oggetto della possibile differenziazione e alla definizione dei ruoli di tutti gli enti territoriali; la seconda è che si utilizza uno strumento legislativo non in grado per la sua natura di legge ordinaria di vincolare il successivo percorso di approvazione di intese Stato-Regione.
Il primo punto è autoevidente: una riforma ambiziosa dell’impianto costituzionale, che viene dichiarata come la decisione di maggior rilievo e più qualificante dell’esperienza delle attuali forze di governo, dovrà, se portata a esito, necessariamente rivedere l’assetto degli enti territoriali, oggi centrato sulle Regioni. Occorre invece, proprio alla luce dell’esperienza in chiaroscuro del 2001-2023, discutere su quale sia il livello ottimale cui assegnare le funzioni, tra municipi – oggi eccessivamente frammentati – ambiti territoriali intermedi ed enti regionali. In particolare, vanno valorizzate Roma capitale e le Città metropolitane, queste ultime tra le innovazioni positive del 2001, la cui attuazione è stata però sciatta, con la mera trasformazione di un gruppo di Province, peraltro eccessivamente numeroso, in Città metropolitane, senza una attenta valutazione su confini amministrativi, funzioni specifiche, capacità fiscale. Ed è chiaro che i poteri eventualmente differenziati delle Regioni non potranno che risultare dall’equilibrio complessivo di funzioni che è preferibile siano coordinate a livello comunitario, statale oppure siano assegnate alle Città metropolitane o ai Comuni.
Quanto al secondo punto, la legge-quadro per sua natura è una legge ordinaria e pertanto può essere in tutto o in parte superata, attraverso il meccanismo dell’abrogazione tacita, dalla legge di approvazione di una intesa Stato-Regione. Una soluzione tecnica adeguata potrebbe essere semmai il ricorso alla delegazione legislativa, vale a dire alla sequenza legislativa articolata tra Parlamento e Governo, nella quale la legge di delega, in virtù nel meccanismo dell’interposizione prefigurato dall’articolo 76 della Costituzione, vale a conformare la legge delegata anche quando questa assuma a contenuto l’intesa.
Questo grossomodo lo schema, se si vuole conformare la sequenza all’art. 72 Cost.: legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti del Parlamento (dunque in linea con quanto previsto dall’articolo 116, comma 3, della Carta) con la quale si delega il Governo a stipulare intese, sulla base di princìpi e criteri direttivi, che riguarderanno sia i contenuti sia il procedimento formativo, in conformità all’articolo 76; doppio parere, su un primo schema di
intesa e su un secondo deliberato dal Governo, tenendo conto delle interlocuzioni con le Regioni richiedenti, da parte della Commissione bicamerale per gli affari regionali integrata con rappresentanti dei Comuni e delle Province (o da parte di una Commissione specificamente istituita dalla legge di delega, che preveda anch’essa la presenza di Comuni e Province), sempre espresso a maggioranza assoluta dei componenti.
L’analisi delle funzioni
Qualsiasi ripensamento dell’organizzazione della macchina pubblica non può che partire da una analisi delle funzioni e ciò vale a maggior ragione nel caso si proceda verso una attribuzione differenziata ai governi territoriali. Non esiste un modello universale che stabilisca in astratto qual è la dimensione ottimale di un ente pubblico, così come non c’è per un’impresa. Tuttavia, ci sono strumenti di analisi che permettono di evidenziare l’effetto di economie di scala e quindi, per converso, i costi di una frammentazione dei modelli gestionali. Per il sistema produttivo, in particolare, doversi confrontare con burocrazie territoriali diverse per fonti normative e per specificità organizzative porta inevitabilmente un incremento dei costi e dell’incertezza sugli esiti di un investimento.
Tale tema è del tutto assente nel disegno di legge Calderoli, in base al quale la Regione avvia la richiesta «secondo le modalità e le forme stabilite nell’ambito della propria autonomia statutaria» senza che sia prevista in nessun passaggio un’analisi da parte di un soggetto terzo – come l’Ufficio parlamentare di Bilancio, la Corte dei Conti, l’Istat, la Banca d’Italia, la Commissione tecnica fabbisogni standard – cui affidare il compito tecnico di evidenziare le specificità di una singola materia e le eventuali economie o diseconomie di scala legate all’esercizio delegato di alcune funzioni.
Il ministero degli Affari regionali si è limitato a predisporre un dossier di 81 pagine con elenco di oltre 500 funzioni senza rispondere a due domande preliminari: perché il livello obiettivo di una specifica funzione debba avere
una dimensione regionale e cosa resta per il livello statale di una singola materia se fossero trasferite tutte le funzioni indicate.
L’attuazione dell’articolo 116, comma 3, infatti, avviene con legge ordinaria, sia pure posta in essere con un procedimento atipico, inidonea quindi a modificare gli elenchi di materie contenuti nel secondo e terzo comma dell’articolo 117 della Costituzione. Tale legge ordinaria è invece idonea a trasferire singole funzioni o anche gruppi di funzioni, ma non in blocchi di tale dimensione da svuotare integralmente gli ambiti materiali di competenza statale.
Peraltro, se fosse effettuata una attenta analisi delle funzioni potrebbe emergere, anche sulla base della richiesta di una singola Regione, che per una determinata funzione non c’è alcuna controindicazione organizzativa o economica a delegarla, per cui si potrebbe procedere in via ordinaria ad assegnare quella attività a tutti gli enti regionali, senza la necessità della procedura rafforzata del regionalismo differenziato.
Tuttavia, non è questa la strada finora intrapresa, al punto che appare significativo come nelle singole intese preliminari sottoscritte il 28 febbraio 2018 tra le Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna e la presidenza del Consiglio fosse presente (all’articolo 1, comma 2) sempre la stessa formulazione: «L’attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia corrisponde a specificità proprie della Regione e immediatamente funzionali alla sua crescita e al suo sviluppo». Le specificità, se tali sono, andrebbero definite nel dettaglio, così come andrebbe dimostrato materia per materia l’effetto sulla crescita di un singolo territorio insieme all’impatto sul sistema statale e sulle altre autonomie territoriali. E questo non con l’obiettivo di conservare il più possibile poteri centralizzati bensì di accertare caso per caso e senza le rigidità di una procedura rafforzata il modello più efficiente di organizzazione.
In particolare, se si considerano le richieste avanzate nel 2019 dalle tre
Regioni che hanno avviato il processo, esse sono talmente numerose e pervasive da produrre una frammentazione inaccettabile delle politiche pubbliche. E ciò sia per il valore di un tema come l’istruzione, sia per le conseguenze che avrebbe la competenza legislativa regionale nella materia delle «grandi reti nazionali di trasporto e di navigazione» o nella «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia». Materie per le quali sarebbe da interrogarsi, semmai, sull’adeguatezza della dimensione nazionale piuttosto che europea. E ancora: l’acquisizione al demanio regionale della rete ferroviaria e autostradale, l’approvazione delle infrastrutture strategiche anche di competenza statale, le competenze in materia di immigrazione, la ricerca, la definizione dell’equivalenza terapeutica tra medicinali.
Gli schemi di legge quadro proposti dai ministri per gli Affari regionali che si sono succeduti dal 2019 a oggi su questi temi sono silenti. Tutti affrontano, in qualche modo, il tema della definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep), certo cosa opportuna e necessaria, ma che tuttavia non risolve le questioni. Né dal punto di vista dell’equità né da quello della frammentazione delle politiche pubbliche.
Serve, invece, una legge quadro nella forma di legge delega, strumento che mantiene pienezza di ruolo al Parlamento, cui spetta il compito di indicare la natura delle motivazioni accettabili a favore della differenziazione fissando i principi interpretativi del terzo comma dell’articolo 116.
Parallelamente, finché la Costituzione rimarrà invariata, occorrerà completare il disegno dell’articolo 117, con la determinazione da parte dello Stato dei principi fondamentali per le singole materie cosiddette «concorrenti». È un passaggio decisivo, insieme alla determinazione dei Lep, per evitare la frammentazione delle politiche pubbliche. Se fosse stato compiuto a tempo debito si sarebbero evitati gli eccessi di creatività nel disegno dei modelli di servizio sanitario regionale di cui si è avuto prova nella fase acuta della pandemia.
I livelli essenziali delle prestazioni
I Lep sono citati due volte nella Carta costituzionale così come riformulata nel 2001: all’articolo 117 come potere legislativo esclusivo dello Stato, che ha il compito di «determinare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» e all’articolo 120 nel passaggio in cui si impone allo Stato di intervenire con poteri sostitutivi nei confronti degli enti territoriali in particolare per la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni, precedentemente determinati e finanziati.
Il meccanismo di definizione dei Lep è stato finora quanto meno claudicante. L’esperienza della Sanità (settore nel quale i Lep si chiamano Lea, livelli essenziali di assistenza, e sono stati definiti già nel 2001) mostra che aver determinato nel dettaglio i livelli non porta di per sé all’indicazione dei fabbisogni finanziari. Al contrario di quanto una certa narrazione ha fatto credere, la puntuale definizione dei servizi da garantire non ha permesso di individuare il costo ottimale del singolo servizio e quindi, con un’operazione che dal dettaglio va al parametro complessivo, individuare la spesa sanitaria necessaria per garantire effettivamente i Lea. Si procede piuttosto determinando a monte, nella programmazione del bilancio pubblico, la spesa complessiva compatibile con gli equilibri di bilancio. E del resto sarebbe inopportuno operare diversamente perché l’azione pubblica non può che espletarsi nell’ambito dei vincoli finanziari. Una volta definita la somma a disposizione per la Sanità, si procede a un riparto regionale in base alla popolazione residente corretta per l’età. Un criterio peraltro che, preso singolarmente, penalizza territori con speranza di vita inferiore e quindi con il paradosso di ridurre le risorse disponibili nei luoghi dove ci si ammala e si muore prima. Su tali criteri, del resto, è in corso una revisione in sede di Conferenza delle Regioni.
Altri Lep sono stati individuati in anni recenti (2021-2022) per servizi offerti a livello comunale o di ambito sociale come gli asili nido, il trasporto scolastico dei disabili, gli assistenti sociali, gli anziani non autosufficienti. Da tali prime
esperienze emerge una marcata diversità di approccio, con conseguenze di evidente irrazionalità. Lo esemplifica il confronto tra il Lep per gli asili nido e il Lep per gli assistenti sociali. Il primo è definito in misura pari a un posto per il 33% dei bambini in età 3-36 mesi; il secondo in un assistente sociale ogni 5.000 residenti. Sui nidi quindi si misura, in linea con la Costituzione, il servizio agli utenti mentre nel secondo caso il parametro è il personale, indipendentemente dalle caratteristiche della popolazione da assistere, come se cioè in tutta Italia ci fosse la stessa incidenza di disabilità, di anziani non autosufficienti, di dispersione scolastica e così via. Inoltre mentre per gli asili nido la copertura del servizio fino al 33% è finanziata gradualmente entro il 2027 con trasferimenti ai Comuni a carattere vincolato, per gli assistenti sociali il finanziamento è assegnato a chi già raggiunge il parametro Lep, come una sorta di premio di risultato, oppure a chi è sufficientemente vicino (almeno un assistente sociale ogni 6.500 residenti) mentre il finanziamento definito dalla norma è assente per chi è lontano dal parametro obiettivo, con il risultato paradossale che la definizione del Lep sugli assistenti sociali a partire dal 2021 ha portato un incremento dei divari territoriali, in contrasto con la previsione costituzionale di garanzia dei diritti sociali su tutto il territorio nazionale. Quanto agli asili nido, una irrazionalità è emersa con i bandi del Pnrr per la costruzione delle strutture perché numerosi Comuni del tutto privi del servizio non hanno presentato alcuna domanda, evidenziando come mettere a gara un diritto essenziale come un Lep non sia garanzia di raggiungimento dell’obiettivo. In tale contesto – e quindi senza ricognizione, razionalizzazione, definizione, finanziamento e messa a regime dei Lep – incrementare le differenze regionali renderebbe più ostico perseguire di uguaglianza dei diritti civili e sociali indipendentemente dal luogo di residenza.
Il cosiddetto federalismo fiscale
Il legame tra devoluzione di funzioni e relativo finanziamento è evidente, e rappresenta un ostacolo difficile nell’attuazione del regionalismo differenziato, sia dal punto di vista tecnico sia da quello politico. A lungo il dibattito in materia è stato distorto dalla lettura capziosa dei cosiddetti «residui fiscali»,
come se fosse giuridicamente ed eticamente accettabile che un territorio con maggiore capacità fiscale debba beneficiare di un livello superiore di diritti e quindi di risorse.
Il sistema tributario in Italia ha conosciuto in una prima fase una spinta verso l’incremento della capacità fiscale locale nella convinzione, tecnicamente corretta, che avvicinare le scelte sulle leve fiscali ai cittadini consentisse un controllo più stringente. Tappa significativa, nel 1992, è stata l’introduzione dell’Ici, l’Imposta comunale sugli immobili, e poi nel 1998 l’Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive, e le addizionali Irpef regionali (1998) e comunali (1999). La riforma costituzionale del 2001 avrebbe dovuto sistematizzare tale tendenza, con l’introduzione di specifici fondi di perequazione per i territori con minore capacità fiscale per abitante.
Un passaggio di rilievo in linea con la legge delega 42/2009 è stata la previsione nel decreto legislativo 23 del 2011 dell’Imu, imposta municipale, la quale sarebbe dovuta entrare in vigore nel 2014 e non avrebbe dovuto colpire gli immobili destinati ad abitazione principale. La sua attuazione però fu anticipata al 2012 in una fase di crisi finanziaria, con il decreto Salva Italia, ed estesa a tutti gli immobili, destinando allo Stato metà del gettito ad aliquota standard (0,76%) degli immobili diversi dall’abitazione principale, forma anomala di compartecipazione centrale a un tributo locale. Le anomalie, tuttavia, sono proseguite e lo Stato è più volte intervenuto con provvedimenti che di fatto incidevano fortemente sulle leve fiscali degli enti territoriali, minandone i gradi di autonomia finanziaria, al punto che apparirebbe oggi utile introdurre nell’ordinamento tributario una norma che impedisse interventi tali da contrarre le leve fiscali degli enti territoriali. Ne sono esempi il progressivo svuotamento dell’Irap e l’esenzione dell’Imu sulla prima casa, scattata nel 2014, sostituiti da trasferimenti a Regioni e Comuni in base al gettito storico, privi da qualunque meccanismo di perequazione della capacità fiscale. Ne è esempio recente la flat tax sul lavoro autonomo, per la quale l’aliquota forfettaria Irpef al 15% – estesa nel 2023 fino a 85mila euro – è comprensiva delle addizionali regionali e comunali e dunque sottrae gettito fiscale a Regioni
e Comuni senza che se ne siano valutate le conseguenze. E non è solo un problema di gettito ma di rapporto tra contribuenti-elettori e servizi erogati. Oggi ci sono figure professionali che partecipano ai servizi sanitari offerti dalle Regioni senza pagare nulla. Allo stesso modo, con l’abolizione dell’Imu sull’abitazione principale i Comuni non possono far pagare i residenti per i servizi che offrono.
Il processo di regionalismo differenziato, proprio perché legato alla responsabilizzazione dei territori e quindi delle amministrazioni locali, andrebbe invece accompagnato da un incremento e non da una riduzione dell’autonomia tributaria locale. E ciò deve avvenire in armonia con l’articolo 119 della Costituzione – fino a quando non sarà stato sottoposto alla revisione che si ritiene necessaria – e quindi con l’attuazione della legge 42/2009 per tutti gli enti regionali, compresa l’attivazione del fondo perequativo senza vincolo di destinazione in favore dei territori con minore capacità fiscale. Per converso i meccanismi, al momento solo accennati, previsti nel disegno di legge Calderoli, non vanno in tale direzione. Si punta infatti a «compartecipazioni al gettito» di tributi nazionali. In pratica il Parlamento nazionale si assume l’onere di determinare le aliquote Irpef o Iva e i benefici di una quota percentuale del gettito vanno a singoli territori, con possibilità di incrementare la percentuale sulla base di una valutazione annuale di una Commissione paritetica Stato-Regione, sottraendo di fatto margini di manovra fiscale al Parlamento nazionale, in contrasto con il secolare principio no taxation without representation. Le leve fiscali locali andrebbero invece rafforzate e accompagnate da un meccanismo di perequazione per attenuare le differenti capacità fiscali per abitante.
Il collasso del Mezzogiorno
Qualsiasi valutazione del processo di regionalismo differenziato deve tener conto della specificità italiana di avere al proprio interno la più vasta area europea in ritardo di sviluppo. In base all’indicatore di occupati sulla popolazione in età lavorativa in Europa spiccano i valori negativi dell’Andalusia,
in Spagna, e della Dytiki Ellada, in Grecia, con indici poco sopra il 50% contro il 75% dell’obiettivo di Europa 2020 (età 20-64 anni). Ma ancor più grave è la situazione di quattro regioni addirittura sotto il valore soglia del 50%, tutte in Italia: Puglia, Calabria, Sicilia e Campania, quest’ultima con il minimo assoluto: 40,9% nell’Unione europea, ovvero 34 punti al di sotto dell’obiettivo del 75% che l’Unione europea si era dato per il 2020. Al Sud c’è anche il maggiore divario occupazionale tra uomini e donne, con oltre 20 punti percentuali di distacco e un massimo in Puglia: uomini 59,7% e donne 32,8%. Risultati di analoga drammaticità emergono analizzando le competenze scolastiche e la dispersione, così come il tasso di laureati (dove però sono i maschi in condizioni di maggiore ritardo) e il numero di giovani che non studiano e non lavorano (Neet).
A tali fenomeni, di lunga data, l’Istat aggiunge una valutazione demografica che nel Mezzogiorno sta assumendo con rapidità una connotazione tragica. La somma di denatalità e di emigrazione verso il Centronord e in misura minore verso l’Estero sta depauperando il principale patrimonio del Sud Italia: il capitale umano. Le Università meridionali stanno perdendo iscritti e la tendenza è destinata ad accentuarsi nei prossimi anni con le nascite che in Italia sono crollate da 1.035.000 del 1964 a 577.000 nel 2008, per scendere
ancora fino a 393.000 del 2022.
Di fronte a tale quadro, di una drammaticità senza precedenti storici, è indispensabile in primo luogo assegnare al Mezzogiorno il peso specifico che merita e cioè considerarlo una grande questione europea che coinvolge un’area di 20 milioni di abitanti. Va poi definito un radicale cambio di rotta rispetto alle stagioni dell’intervento straordinario caratterizzate da progetti sponda, vale a dire un meccanismo adottato nel 1996 in via straordinaria (cioè, secondo gli impegni dell’epoca, non replicabile) per consentire all’Italia di ridurre il disavanzo del bilancio pubblico entro il parametro del 3%. La tecnica del progetto sponda avrebbe dovuto essere utilizzata soltanto in quella occasione per assicurare all’Italia l’ingesso nel primo gruppo dei paesi dell’euro e invece è stata poi replicata con mere variazioni semantiche (progetti coerenti,
retrospettivi, ammissibili e così via). In base a tale meccanismo si rendicontano per i fondi europei progetti già realizzati con altre fonti di finanziamento, al solo fine di non perdere il contributo ma rinunciando a ogni efficacia aggiuntiva della spesa. Spesso a utilizzare tale leva sono i medesimi soggetti che hanno fallito la programmazione, per cui il progetto sponda libera margini finanziari privi di vincoli progettuali e temporali e diventa una sorta di premio per la cattiva gestione dei fondi comunitari.
Così il Mezzogiorno e con esso l’Italia precipitano verso l’irrilevanza. È indispensabile un cambio di rotta che si basi su alcuni principi. Il primo è la centralizzazione dell’intervento straordinario su tutti gli obiettivi diversi da quelli meramente locali con un’unica strategia per l’insieme dei fondi disponibili. Il secondo è il divieto per un ente che ha fallito gli obiettivi di riutilizzare le somme non spese tramite riprogrammazione: gli importi disponibili devono conservare la medesima destinazione territoriale ma essere gestiti a un livello superiore. Il terzo è il superamento del meccanismo dei bandi per enti locali quando gli interventi riguardano materie oggetto di livelli essenziali delle prestazioni perché un diritto da garantire su tutto il territorio nazionale non può essere messo a gara, come dimostrato in occasione dei bandi del Pnrr per le infrastrutture scolastiche, i quali non hanno portato una allocazione ottimale delle pur ingenti risorse disponibili.
Il modello del Pnrr è invece efficiente quando pone target misurabili e andrebbe utilizzato per tutte le risorse, anche nazionali, finalizzate alla coesione territoriale. I trasferimenti sarebbero pertanto vincolati all’ottenimento di determinati obiettivi, definiti ex ante e controllati a scadenze ben definite. Per i target con natura di Lep, il mancato raggiungimento comporterebbe il commissariamento degli enti attuatori; per gli altri obiettivi, si provvederebbe a riassegnare i fondi a soggetti diversi da quelli inadempienti.