«La politica industriale del governo in questi pochi mesi va nella direzione giusta per ridare slancio e forza a chi crede nel Paese e ha il coraggio di investire. La transizione che si sta cercando di impone in Europa è fondata su basi demagogiche e ideologiche: è negativa dal punto di vista ambientale, economicamente insostenibile, deflagrante sotto il profilo sociale e corre il rischio di portare l’Europa alla rottura». È un giudizio durissimo quello che Antonio D’Amato, presidente della Fondazione Mezzogiorno, amministratore delegato di Seda International Packaging Group e presidente di Confindustria dal 2000 al 2004, esprime nei confronti della politica climatica europea, racchiusa nel pacchetto di misure noto come Green Deal.
«È all’opera una visione dirigista con cui si mortificano le imprese, i ceti medi e le classi lavoratrici. In questo modo non solo non si fanno passi in avanti nel miglioramento dell’impatto ambientale ma si rischia di far trionfare i nazionalismi e i sovranismi. Dobbiamo saper assicurare un’autentica strategia di politica industriale al nostro Continente. Senza un sistema industriale competitivo, di alta qualità e sostenibile non possiamo garantire crescita economica, coesione sociale e quindi politica e istituzionale della nostra Europa».
Un timore che il governo sembra aver ben presente, a giudicare dalle posizioni prese ai tavoli europei. Crede che la fermezza dimostrata da Palazzo Chigi, dalla questione dell’auto elettrica alla direttiva sulle case green, fino al regolamento sul packaging, possa pagare?
«E un atteggiamento positivo perché finalmente il governo italiano sta ponendo al centro della propria azione a livello europeo la tutela e la difesa della capacità industriale e manifatturiera del nostro Paese. Nel corso degli ultimi anni, soprattutto durante questa legislatura europea, abbiamo assistito a una stagione di vera e propria deindustrializzazione e di decrescita che di felice non ha niente. Negli ultimi quindici anni abbiamo perso per iper regolamentazione interi settori produttivi: la chimica di base, la siderurgia, il tessile. Le grandi imprese globali si sono posizionate a un metro dai confini europei dove potevano fare dumping sociale, fiscale, valutario e persino ambientale perché producevano in Paesi dove c’erano standard più bassi di quelli che avevamo nella Ue. Sotto questa spinta demagogica e fortemente ideologizzata che caratterizza tutte le operazioni contenute nel Green Deal, si rischia di fare grandissimi passi indietro sulla strada del progresso e della sostenibilità ambientale. Il pianeta è una cosa troppo seria per essere affrontata con demagogia. Richiede scienza, innovazione e tanti investimenti che solo una crescita economica veramente sostenibile può mettere a disposizione».
Ritiene che il rinvio al divieto di vendita dei motori termici dal 2035, ottenuto grazie all’asse costruito con la Germania, sia un fatto positivo? E fino a che punto potra influire sulla filiera dell’automotive?
«Positivo sì. Ma devo dire un po’ tardivo perché avremmo dovuto farlo già anni fa. È assolutamente pazzesco che fino ad oggi si siano accettate passivamente delle scelte che rischiano di far perdere completamente ogni autonomia e sovranità al nostro sistema industriale. Quindi bene abbiamo fatto a pone questo tema. Male ha fatto invece la Commissione a portare avanti questo tipo di scelte così unilaterali e miopi. Se questo percorso dovesse andare avanti, il rischio sarà non solo quello di perdere il controllo della tecnologia ma anche del mercato. Perché l’outcome (il risultato, ndr) sarà quello di non avere più un mercato dell’automobile europeo ma cinese, cosa che, in parte, si sta già realizzando. Abbiamo bisogno di essere forti e consapevoli su questo punto per difendere il primato scientifico e tecnologico del nostro Continente».
Gli Stati Uniti hanno varato un piano di sussidi da 370 miliardi di dollari, l’Inflation reduction act. L’Europa, al momento, latita. Si è parlato di un fondo sovrano europeo, ma finora l’unica soluzione che la Ue ha partorito è stato togliere i limiti agli aiuti di Stato. C’è il rischio che la Germania e la Francia, grazie ai maggiori spazi di bilancio, sussidino le loro imprese a danno delle nostre?
«Non è un rischio ma una certezza. il problema è che in Italia l’euroretorica e l’eurottimismo hanno sempre avuto una larga prevalenza nel dibattito pubblico, soprattutto politico. Perché l’atteggiamento dei nostri ceti dirigenti e politici per troppo tempo è stato quello di andare in Europa con la mano tesa e la schiena piegata, quasi come se avessimo una sorta di complesso di inferiorità. Per cui non abbiamo mai saputo porre fino in fondo gli interessi legittimi del nostro Paese come parte fondamentale degli interessi europei, al contrario di quanto fatto dai francesi e dai tedeschi. Abbiamo subìto un fortissimo depauperamento della nostra capacità di riequilibrio territoriale e competitivo. Per quanto riguarda l’Inflation reduction act, penso che gli americani abbiano dato una bella sveglia all’Europa. Una sveglia che deve impone un cambio di passo e di strategia rispetto ai temi dello sviluppo. In quest’ultima fase della legislatura europea c’è un’accelerazione molto forte per portare a casa quanti più risultati possibili sul Green Deal. Se vogliamo ridare all’Europa una struttura industriale competitiva e sostenibile, allora dobbiamo fermare l’accelerazione distruttiva dei vari dossier che si stanno portando avanti. Inoltre, occorre mettere a servizio comune risorse di carattere straordinario. Il fondo sovrano è sicuramente lo strumento migliore perché la logica degli aiuti di Stato vuol dire liberi tutti, in una visione che non è più quella di un’Europa unita. Ma tutto questo va fatto velocemente; non possiamo aspettare le elezioni europee».
Qual è il suo giudizio sulla politica industriale ed energetica del governo?
«Il programma del governo si sintetizza nell’espressione che ha usato la Meloni quando ha detto che “lo Stato non deve impedire chi vuole fare”. E questa mi sembra la strada giusta per ridare slancio e forza a chi crede nel Paese e il coraggio di investire. La politica industriale del governo in questi pochi mesi va nella direzione giusta. Ha affrontato in maniera determinata e determinante il percorso di autonomia energetica, portando avanti brillantemente il percorso che era già iniziato con il governo Draghi. Ora si tratta di fare le altre riforme di cui il Paese ha bisogno. Quindi c’è un percorso lungo da intraprendere, ma la direzione di marcia mi sembra chiara: se vogliamo far diventare l’Italia un Paese forte occorre valorizzare il suo potenziale industriale».
Venendo alla bancarotta della Silicon Valley Bank, l’istituto americano fallito la scorsa settimana, crede che possa esserci un contagio finanziario in Europa?
«Credo di no perché in Europa per fortuna abbiamo una forte attenzione e rigore sugli aspetti regolamentari. In questa vicenda dobbiamo considerare due cose. Da un lato, un rialzo eccessivo dei tassi di interesse che corre il rischio di provocare effetti indesiderati. Anche perché sappiamo che gran parte dell’inflazione è un’inflazione da costi più che da domanda. Da più parti sono arrivati inviti alla Banca centrale europea per contenere questo aumento dei tassi, inviti che, invece, mi sembra continuino a rimanere inascoltati. Dall’altro lato, negli Stati Uniti la pressione sui tassi ha messo in crisi un sistema finanziario che da troppo tempo continua a vedere irrisolti i suoi aspetti regolamentari fondamentali».